Tra corse per arrivare in tempo (spesso non riuscendovi), caffè ingollati al volo, escursioni termiche lancinanti mentre si salutano fugacemente persone su cui, subito dopo, si genera il dubbio di un'effettiva conoscenza e poi, all'interno della sala, umori, odori e sudori provenienti dal vicino sempre molesto (ruolo intercambiabile, se chiedeste al vicino, ovviamente) e uno spettatore sempre più alto di te nel seggiolino davanti che ti costringe a ergerti due ore per poter leggere i sottotitoli, tra tutto questo, a volte, nel ditirambico caos di un festival, capita di vedere anche un bel film. Da rivedere, certo, perché usciti dalla sala con un sorriso compiaciuto sul volto nasce il dubbio che il giudizio positivo possa essere stato influenzato dall'allontanamento dai miasmi e dall'arrivederci al watusso seduto davanti oppure dall'insoddisfazione ricavata dalle altre pellicole viste nel corso della giornata, per una sorta di effetto brillantezza dopato dalla voglia di risalire in superficie a rivedere le stelle.
Big Bad Wolves è uno di questi bei film. Film israeliano firmato da Aharon Keshales e Navot Papushado, visto nella sezione After Hours, quella dei film eccentrici, dei probabili culti per cinefili incalliti. Pellicola molto amata da Tarantino che pare l'abbia citata in un eccesso di entusiasmo come il film più bello del 2013 (fonte Variety), salvo votare diversamente quando è stato interpellato sui dieci film migliori dell'anno.
Un crimine di pedofilia compiuto durante la sequenza dei titoli di testa con la soavità di un gioco tra bambini, viene rappresentato con un ralenti su volti sorridenti e corpi fragili intenti a giocare a nascondino, fino a quando il nascondersi diventa chiara allegoria di una tragica sparizione e una scarpetta rossa ritrovata in un armadio l'esplicitazione di un'assenza che allude alla fiabe, solo per sottolineare l'attenzione sui mostri che le popolano. I Big Bad Wolves del titolo, appunto. Tre, per la precisione. Che si ritrovano nello scantinato di una villa separata dal mondo, immersa in una moltitudine di villaggi palestinesi disposti tutt'intorno, dopo una sorta di parodia di detection con pestaggi compiuti con guide telefoniche, improbabili appostamenti e ritrovamenti macabri (la bambina scomparsa riappare tramite la reazione di un poliziotto, un veloce movimento di macchina ad altezza suolo che si ferma dietro le sue caviglie sanguinanti legate a una sedia e un totale dall'alto che la mostra - temperando il disgusto - priva della testa).
Un drammatico scenario in cui si celebra un immorale redde rationem che allude, pallidamente, anche alle vicende israeliane. Un kammerspiel un po' da teatro dell'assurdo, un po' splatter, che ha come personaggi il padre della bambina uccisa, desideroso di vendicarsi di un grigio insegnante di religione immobilizzato su una sedia, che tutti credono colpevole sin da subito, anche se non c'è una sola prova a suo carico, ma solo i sospetti di tutti, anche del poliziotto che lo pedina pur essendo stato sospeso dal servizio per abuso di mezzi di coercizione.
Siamo nei territori esplorati recentemente da Denis Villeneuve in Prisoners, seppur con tonalità completamente differenti. Perché l'aspetto morale e il brivido di un film su un assassinio tanto riprovevole si diluiscono spesso in una risata a denti stretti che sorprende perché apparentemente fuori contesto e al di là della logica. E invece il notevole merito di Kashales e Papushado è di aver inserito l'enormità del tema nell'arduo equilibrio di una black comedy nella quale i toni leggeri paiono spesso prendere il sopravvento grazie alla brillantezza dei dialoghi, ai volti e alle reazioni di personaggi dalle espressioni vigorose e surreali. Una sorta di colpo basso in un film organizzato intorno alla metafora del contrasto, perché mentre i toni comedy distraggono, il black stende il suo oscuro velo sull'intera soluzione dell'enigma. Con un unico movimento di macchina a rivelare un finale tragico cui solo il pubblico può avere amaro accesso.