Tre film interessanti e incompiuti, dagli States (via Sundance), la Thailandia e il Venezuela. Tre film che, forse, sono interessanti proprio perché incompiuti, per ciò che è “laterale” rispetto all’intenzione principale (“centrale”) di chi li ha realizzati.
Il più compiuto di tutti (perfino troppo) è Pelo Malo, che ha vinto il Festival di San Sebastian e quindi è arrivato a Torino accompagnato da una buona fama. Fama meritata soprattutto per l’abilità e la sensibilità con cui Mariana Rondón intreccia i cascami di una cultura machista e militaresca (a conduzione paradossalmente matriarcale) con la storia del duro difficile rapporto senza amore tra un ragazzino e sua madre, terrorizzata dalla possibilità che suo figlio sia gay.
Pelo Malo è tutto quello che ti aspetteresti (nell’estetica realista) da un film venezuelano ambientato in un quartiere popolare di Caracas fatto di caseggiati incombenti, alveari umani che occupano tutto lo spazio visivo dell’inquadratura senza lasciare scampo, senza far neppure immaginare l’esistenza di un orizzonte oltre l’ingombrante “fatalità” di quell’utopia urbanistica diventata un girone infernale.
Ma è anche un po’ meno, perché ci viene risparmiata la consueta fenomenologia del degrado, solo evocata dalla minaccia sempre incombente fuori campo (gli spari) o dentro i discorsi quotidiani dei bambini (“Qui stuprano”).
Ed è anche un po’ di più, grazie alla vitalità di Junior, il riccioluto ragazzino a cui piace ballare, che vorrebbe avere i capelli lisci e sembrare un cantante. La madre, sola, depressa, incapace di far fronte alle circostanze, usa il suo corpo per cercare una via d’uscita, manipola ed è manipolata, mentre sfoggia con suo figlio un campionario di crudeltà che ce la fa odiare ben oltre le sue responsabilità, lei così inconsapevole, così tragicamente ignorante. Tutto questo in un Paese in cui la devozione per il leader tocca vertici di follia grottesca, in cui potere, religione, superstizione non fanno che alimentare il culto dell’uomo forte.
Un film programmatico? Certo. Un film che non convince del tutto nei suoi snodi psicologici stereotipati? Senz’altro. Ma è sapiente il ritratto del luogo, è affascinante lo studio dei rapporti umani in quel contesto, è magnificamente vera la sensualità della madre così come il bisogno d’amore del ragazzino o l’insano ma comprensibile desiderio della nonna di “comprare” Junior e salvarlo proprio in quanto uomo mancato (suo figlio “uomo vero” ha pagato con la vita). Il meglio sta nei dettagli.
Di tutt’altra pasta è fatto C.O.G., opera seconda del giovane regista indipendente Kyle Patrick Alvarez, film di cui è arduo capire il come e il perché senza sapere che è tratto da uno scritto di David Sedaris, riconosciuto fuoriclasse della narrazione umorista (tenera e feroce allo stesso tempo), gay dichiarato, qui evocato da un testo autobiografico. Anche se poi di quell’umorismo genialoide nel film rimane ben poco, lasciandoci alle prese con la storia di un ragazzone intellettuale troppo innamorato di ciò che crede di essere, deciso a fare una romantica esperienza esistenziale steinbeckiana nell’Oregon, come raccoglitore di mele, per poi diventare apprendista di un “Child Of God”, che lo inizia alla lavorazione della giada e alla devozione religiosa.
Inutile dire che il suo viso delicato (quello di Jonathan Groff), il suo parlare forbito, il suo essere così “effeminato” nello stile e nella sensibilità, lo porteranno al centro dell’attenzione, dandogli qualche problema di troppo. Crescerà, passando attraverso ingenuità, inadeguatezze, rapporti imbarazzanti, scelte discutibili. Crescerà anche grazie alla falsità e alla generosità, alla violenza e all’affetto, ma soprattutto all'ambiguità e la crudeltà delle persone con cui avrà a che fare.
Qua e là curioso, a tratti rocambolesco, ogni tanto C.O.G. riesce a farti dimenticare dove siamo e dove ci sta portando la storia, salvo poi rivelarsi palesemente incompiuto nella sua struttura a episodi, come se mancasse qualcosa, come se il tempo fosse improvvisamente finito prima che al regista riuscisse di arrivare finalmente da qualche parte.
Infine, Karaoke Girl, il film meno incisivo, quello cinematograficamente meno compiuto, eppure, forse, quello che meglio riesce a cogliere la verità di ciò che sta mostrando, la vita vera di Sa Sittijun, che ha lasciato il villaggio in cui è nata per cercare fortuna a Bangkok. Finzione e documento, interviste e messinscena, si intrecciano senza forzature, tra scorci di vita rubata e recitata, di natura e di metropoli notturna, fra abbandoni estatici alla bellezza delle cose e sguardi persi nel vuoto, nella fatica, nella vergogna.
Perché una Karaoke Girl fa molto di più che cantare, accompagna i clienti, li mette a loro agio, e alla fine si prostituisce. Sa è bellissima, ha la freschezza e l’ingenuità di una ragazzina, ma porta anche i segni delle sue scelte e delle sue bugie. Non c’è morbosità e men che meno moralismo nello sguardo di Visra Vichit Vadakan. Anzi, c’è un’aderenza commovente allo sguardo e ai pensieri di Sa, anche a quelli che non possiamo conoscere ma solo intuire. Da Bangkok al villaggio in cui è cresciuta, dai clienti ai famigliari, dalle notti brave in città alle tradizioni di campagna, dalla voglia di emergere vivere guadagnare in fretta al bisogno di essere se stessa, amare, sognare.