Pochi film hanno la potenza evocativa di Profondo rosso (1975, restaurato in occasione del suo prossimo quarantennale, e proiettato al Torino Film Festival 32), insinuandosi nell'immaginario di chiunque abbia avuto l'occasione di vederlo in maniera definitiva.
Il capolavoro di Dario Argento non ha perso nemmeno un briciolo del suo magnetismo, anzi, a una seconda, terza, decima visione continua a acquistare fascino. Come il protagonista alla fine del film non riesce a smettere di guardare, terrorizzato e sconvolto, la pozza di sangue nella quale si specchia, lo spettatore è incapace di distogliere gli occhi dallo schermo, come se, a sua volta, lo schermo lo ri-guardasse.
Profondo rosso è, in effetti, non solo un'opera capitale per il genere thriller/horror (chi ha fatto cinema successivamente non può non tenerne conto), ma una delle più sorprendenti riflessioni sullo sguardo e sul cinema, sulla meccanicità dello sguardo (e della ripresa cinematografica) e su quel che sfugge a questa ripetizione macchinica.
La macchina da presa nelle mani di Argento è un'arma che svela e colpisce e si muove, in questo film come in nessun altro, come fosse un segugio in cerca di qualcosa: sono numerose le sequenze in cui la m.d.p. si sposta nervosamente, vira bruscamente, per poi concentrarsi su un dettaglio, e non sempre si tratta di una soggettiva dell'assassino.
Il vero assassino è il regista, che si libera del cinema precedente e ne scardina i codici, rileggendo in maniera personalissima e nuova due opere fondamentali per la riflessione sullo sguardo: Peeping Tom (L'occhio che uccide, 1960) di Michael Powell e Blow up (1966) di Michelangelo Antonioni, omaggiato anche nella scelta di David Hemmings come protagonista.
Anche in questo caso c'è un dettaglio mancante, qualcosa che è stato registrato dall'occhio ma non è stato visto (il volto dell'omicida). Nella sequenza finale, Marc torna nell'appartamento della prima vittima, rendendosi finalmente conto che ciò che aveva visto e continuava a sfuggirgli non era un quadro portato via da qualcuno perché rivelatore, ma uno specchio che rifletteva un altro dipinto sulla parete di fronte. Quella notte, alla composizione di volti deformati, riflessi dallo specchio, si era aggiunto anche quello dell'assassino, nascosto in un angolo del lungo corridoio.
Anche l'occhio dello spettatore, come quello del protagonista, ha registrato quel volto, ma non lo ha visto (a una seconda visione, attendendo consapevolmente il passaggio in corridoio, per pochi istanti l'immagine si svela chiaramente, e con lei l'identità dell'omicida), troppo concentrato sulla schiena del protagonista che si pensa possa venir colpito dalla mannaia che ha appena ucciso la sensitiva, colpevole di aver percepito pensieri malvagi e di morte provenire da una persona che assisteva a un suo convegno.
Lo sguardo ambiguo della m.d.p., che si sovrappone a quello dell'assassino, forza quello dello spettatore a osservare solo una parte di ciò che l'immagine restituisce, spesso, come in questo caso, la meno importante. La tensione, che rimane costante per tutta la durata della pellicola, non è solo frutto di ciò che ci si aspetta da un film di questo genere (un assassino che presumibilmente ucciderà di nuovo, il protagonista che è testimone del fatto di sangue e di conseguenza è in pericolo) ma anche di tutta una serie di particolari provenienti dal mondo dell'infanzia e ribaltati in maniera terrorizzante: le bambole rotte, la canzoncina per bambini, il disegno infantile ma estremamente eloquente.
Lo straniamento a cui si assiste, vedendo stravolto un mondo che di solito è rappresentato come un'oasi di serenità, prima dei tumulti dell'adolescenza, oppure, tristemente, come luogo di incomprensione e inaffettività, e qui è invece indagato attraverso l'evocazione della sua parte perturbante, è lo stesso spaesamento che si prova di fronte a certe architetture torinesi, restituite in maniera dechirichiana.
Come il protagonista di Peeping Tom poneva le sue vittime di fronte alla loro paura (le uccideva con una lama posizionata su un cavalletto, costringendole a guardare il proprio volto sfigurato dal terrore, riflesso in uno specchio, filmando le loro ultime espressioni e la loro morte), Dario Argento porta lo spettatore a volgere lo sguardo verso le ossessioni e le paure più profonde, infantili e minacciose, riflesse dallo schermo come fosse, appunto, uno specchio interiore.
Al tempo stesso il regista compone, con uno stile straordinario, elegante e originalissimo, ogni singola immagine, all'interno della quale tutto è importante e tutto è sfuggente, decretando la fallibilità dell'occhio. Non resta che il cinema, dunque, e il suo potere evocativo, addirittura salvifico - non è un caso che il meccanismo dell'ascensore, che permette al protagonista di salvarsi, poiché, messo in funzione, decapita l'omicida per mezzo della catenina incastrata nella porta, non è altri se non il meccanismo che permette alla cinepresa di girare –, consentendo di rinnovare un immaginario e tenerlo in vita, facendo un atto d’invenzione, creando un cortocircuito tra immagini e paure nascoste, abitando i sogni e gli incubi di ognuno di noi.