Snakeskin è uno strano oggetto cinematografico, personalissimo, una specie di geografia scontornata. Un film molto complesso, costruito su più livelli – storico, personale, immaginifico, inconscio –, dal fascino indiscutibile, misterioso.
La protagonista è Singapore, raccontata attraverso tre miti fondativi, che fungono da colonne portanti della narrazione – la sua creazione da parte del principe Srivijayan nel 1299; la costituzione della colonia britannica nel 1819, per mano di Thomas Stamford Raffles; l’elezione, il 21 novembre del 1954, del governo che vede vincitore il People Action Party (PAP), nato per mano di Lee Kuan Yew, e che è tuttora in carica – ma che vengono contrappuntati da una serie di storie intime e private: una storia d’amore, il legame burrascoso tra una madre e una figlia, il lavoro di uno sceneggiatore che ha vissuto il periodo della fiorente industria cinematografica malese.
È curioso come proprio attraverso il lavoro nel cinema la società di Singapore sveli la molteplicità delle sue anime: malese, indiana, cinese, inglese. Ogni cultura ha le proprie competenze specifiche: dunque si scopre che i malesi sono buoni registi, mentre gli indiani ottimi direttori della fotografia e montatori. Eppure, nel film, tutti i ricordi, i segni del tempo, la memoria passata, sembrano scomparire: più volte si chiede di bruciare le vecchie pellicole poiché, montandole, quelle immagini porterebbero con sé qualcosa di malvagio. Daniel Hui si fa carico del rischio e decide di indagare quei fotogrammi che scaturiscono dalla sua immaginazione, per cercare di capire la condizione del suo Paese.
Singapore somiglia alla pelle di un serpente, poiché muta rapidamente aspetto, cercando di cancellare i segni e le ferite, modificando il paesaggio, distruggendo e ricostruendo, attraverso un moto perpetuo. Il regista è perfettamente consapevole dell’ambiguità (e del peso) che la memoria porta con sé: senza passato non c’è presente, ma se non ci si libera del passato, si rimane bloccati.
Con intelligenza introduce la figura del crononauta, colui che viaggia nel tempo. Il film, infatti, inizia nel 2066 a San Francisco. È il tempo a dare una dimensione perturbante all’intero film, come se i luoghi, e con essi le persone, fluttuassero nell’aria, slegati da ogni cosa, pezzi di un puzzle di cui si fatica a vedere la figura rappresentata. Serve dunque un atto immaginativo che tenga assieme le numerose schegge di cui il film è composto. Eppure anche l’indagine sulla vita di una persona segue lo stesso movimento.
Ogni essere umano è il risultato della Storia a cui appartiene, delle sue esperienze, di una cultura condivisa: nel momento in cui sceglie di guardare dentro di sé deve abbandonare quel che lo accompagnava per andare avanti. O meglio, deve scegliere di cambiare il modo di leggere e affrontare i fatti per poter creare qualcosa di nuovo. Così accade anche in psicoanalisi, in cui si accompagna il paziente in un percorso che gli permetta di rinegoziare la realtà attraverso un’interpretazione alternativa.
Per molto tempo a Singapore la Storia, nei libri di scuola, ha subito gravi censure, dando una visione parziale e monca di ciò che era accaduto. Cercare una via differente a quella ufficiale è un atto di coraggio ma anche un gesto vitale.
In Snakeskin il fuoco è una presenza costante, che brucia e distrugge, ma al tempo stesso crea. La memoria che bruciando dona la luce, permette un atto di immaginazione.
Quel che del serpente risulta magnetico è la sua movenza sinuosa, come se il movimento non dovesse terminare nella testa o nella coda, ma proseguire liberamente da entrambe le estremità. Così il film di Daniel Hui, che apre alla possibilità di un’interpretazione continua, viva, coerente con la materia cangiante che affronta e altrettanto decisa nel porre l’Immaginario come motore immobile della società.