Il film è stato in precedenza presentato al Festival di Cannes.
Meno male che c’è ancora qualcuno che crede nel cinema di guerriglia. Quello girato per le strade, fra la gente, in mezzo al rischio di un fuori fuoco, di uno sguardo in macchina non previsto. Guerrilla filmmaking: alla larga dal documentario, da una non meglio specificata verosimiglianza, e dentro la realtà geografica, una presenza ingombrante, un dato concreto. Cinema che precede la produzione, ma pur sempre cinema, che sviluppa una vicenda, che racconta dei personaggi.
Era da La vergine dei sicari che non vedevo un film così dipendente dal suo ambiente, sottomesso, schiavizzato da esso. Se Kinatay era avvolto nel buio, Ma’ Rosa è al contrario soggiogato dalle persone e dagli spazi. C’è un altro film dietro agli eventi della protagonista e della sua famiglia, ed è Mandaluyong, una delle città filippine che formano la Regione Capitale Nazionale, detta anche Metro Manila. Dietro a Ma’ Rosa, al marito e ai figli, al loro “sequestro” da parte di sbirri corrotti in cambio di soffiate e di denaro, ci sono stazioni di polizia che sembrano vecchi negozi di vcd pirata delle Chungking Mansions (con annesso retrobottega), bancarelle, strozzini, travestiti, tassisti; ci sono ragazzini che seguono con lo sguardo la regia, passanti che si voltano a osservare gli interpreti e la troupe; ci sono l’imprevedibilità del gesto spontaneo e l’immediatezza di una reazione.
Brillante Mendoza fa quello che fece Barbet Schroeder con il capolavoro del 2000, gira veloce, in “diretta”, istintivo, franco. A tal punto che si percepisce il pericolo di un’azione inaspettata, un colpo di testa, una minaccia nelle vicinanze. Cinema audace e irresponsabile, che dà retta a un pensiero di invenzione (di genere, di fatti, di cose), “succube” del proprio territorio. Senza sconti, senza soluzioni facili, senza scorciatoie. Non parliamo però di cinéma vérité, per favore: Mendoza vuole una storia, non un panorama; cerca la suspense di un noir in cui i poliziotti sono più bastardi e carogne dei piccoli criminali di cui si servono per riempirsi le tasche, e non inquadra un quartiere.
Quando nel 1969 Haskell Wexler fece America, America, dove vai?, capì che la regia, il progetto, l’idea progettuale stessa (medium cool) erano inevitabilmente destinati a soccombere di fronte alla realtà. Mendoza lascia che a intervenire sul cinema e sul film siano la metropoli, gli slum, gli hotel a ore, le bancarelle, i viottoli, i rigagnoli, e poi gli odori, e lo sporco, e l’umidità. E crede che più che gli individui, siano importanti i sentimenti a cui gli individui sono disposti a giungere per riappropriarsi del luogo. Vendersi, pignorare, chiedere in prestito, fino al dubbio se possa esistere un domani (perché il presente c’è eccome, mentre il passato appartiene al passato): l’ultima scena di Ma’ Rosa, straordinaria e commovente nella sua sospensione, ferma il film e ferma anche noi, quando finalmente capiamo l’urgenza di un’idea filmica non primaria e neppure privilegiata, bensì vincolata ai luoghi, dei quali non può che essere la serva.