Capita piuttosto raramente che quella prassi tanto detestata dai puristi del cinema di tradurre in italiano, modificandolo, il titolo del film, si riveli una scelta vincente. The Death of Stalin, convertito in Morto Stalin, se ne fa un altro dalla distribuzione (e speriamo che il film si veda e che non rimanga in qualche magazzino…), ne è una piacevole eccezione, capace di cogliere una sfumatura assente nell'originale: la ciclicità attualizzante su cui l'intera satira di Armando Iannucci si fonda.
Il regista scozzese, complice anche un cast d'eccezione, tra cui spicca uno Steve Buscemi al meglio di sé, costruisce un'opera degli eccessi, in cui il black humor raggiunge tonalità tanto cupe quanto esilaranti. Riprendendo l'omonimo graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin, Iannucci porta quindi in scena una lunga serie di personaggi ridicoli, dai soldati privi di qualsiasi pensiero critico, automi sia nella paura della sovversione, sia nella fedeltà, ai vertici del Cremlino, troppo preoccupati di piacere a Stalin quasi come a un fidanzato (le barzellette a cui ride vengono promosse, tutte le altre meticolosamente scartate; alle sue serate-film non si può dire no, nonostante guardi solo western), ai figli, Svetlana e Vasilij, che sembrano bloccati in un'infanzia di vizi e pretese.
Ed è mentre il regime è al culmine del suo stato di terrore, mentre le annotazioni d'esecuzione passano di mano in mano, smistate come liste della spesa, e i cadaveri si accumulano in un inno alla violenza cieca – ma allo stesso tempo sciocca –, che il grande dittatore, colui che fa tremare le ginocchia a tutti, indistintamente, se ne va. Eppure non c'è alcuna morte da eroe, per lui, nessun combattimento, e nemmeno un attentato, solo un infarto portato ai limiti dell'assurdo tra burocrazia lenta e degradanti impellenze fisiche (la pozza di urina in cui giace per ore, la sete scambiata per messaggio profetico).
Ma come si dice, quando il gatto non c'è, i topi ballano. E d'improvviso la stregua di personaggi a fedeli a Stalin, fino a poco prima ridicolmente inetti, si rivelano, pur senza perdere i connotati più ironici e grotteschi, veri maestri d'astuzia: dopo un funerale farsa, si avvia quindi un lungo ciclo di successioni al potere. Come un gioco della sedia, in cui, ogni volta che termina la musica, qualcuno resta in piedi, i ministri Malenkov, Berija e Chruščëv, si succedono al governo. E proprio qui, tra le scene di chiusura del film, in quei titoli di coda che evocano un futuro di somiglianze, si insinua l'arguzia del titolo italiano: il gioco è concluso? È bastata la fine dell’Urss per porre fine all'effetto domino del potere? È nel silenzio, nello schermo nero e nell'uscita dalla sala dello spettatore, che Iannucci dà la probabile risposta negativa a queste domande.