Aleksandre Koberidze: uno studente di cinema georgiano, come ce ne sono tanti, alla DFFB, l’accademia del cinema e della televisione di Berlino. Ha in mente un film, una storia, dei personaggi e delle atmosfere, ma per varie ragioni non è possibile usare le attrezzature che la scuola mette normalmente a disposizione degli studenti (lui stesso ne ha usufruito, per i suoi corti, per esempio Colophon, del 2015, girato in 16mm); non si scoraggia, anzi, fa di necessità virtù e sceglie di realizzare comunque il suo film facendosi prestare un cellulare di generazione intermedia, non proprio tra i primissimi ad avere la videocamera incorporata, ma nemmeno uno smartphone di quelli iperdefiniti.
Ne nasce un’opera prima dal titolo che suona come un anatema straziante e lirico, Let the Summer Never come Again, dove Koberidze sceglie di far raccontare da una voce over la storia del proprio personaggio, un aspirante danzatore che, arrivato a Tbilisi con l’idea di entrare in una compagnia ballo, per mantenersi nella capitale, fa prima il pugile, poi si prostituisce, e conosce infine un ufficiale dell’esercito del quale si innamora. Per stessa ammissione dell’autore la guerra e l’amore non possono che essere fuori dall’inquadratura, o tutt’al più stipate nelle “periferie visive” del frame. Il fatto è che in un film stratificato e denso come questo, è proprio grazie alla limitazione tecnica convertita in sfida creativa che quelle “periferie” smettono di coincidere coi margini del frame: sono nelle zone incerte, di sovrapposizione, interlacciatura dell’immagine, là dove i pixel diventano grumi di colore rappreso, condensazione del pensiero, degli umori, dell’esperienza sensoriale.
In questo, fin dalle primissime scene, in inquadrature di paesaggio che tolgono il fiato per la loro semplicità e l’inensità del colore e delle gore d’ombra, sembra più che esplicito il riferimento alla pittura di Cézanne: perché sebbene i pixel, nella loro forma “atomica” li abbia messi a punto Seurat – con il massimo rispetto per la formula sdoganata da Wim Wenders, che invece proprio a Cézanne attribuisce il merito – è proprio il pittore di Aix ad aver inteso la ricomposizione del colore e della luce come strumento di indagine della natura, della struttura profonda della realtà. Di questa forza, lontana anni luce dai filtri e dalle leccature instagrammate che ormai da anni infestano l’immaginario collettivo e il lavoro dei direttori della fotografia, si fa carico Koberidze, adottando tra l’altro, come avrebbe fatto Cézanne, un posizionamento preciso rispetto ai personaggi, e un tempo più lungo di metabolizzazione dell’immagine, da parte dello strumento di ripresa ma anche dello spettatore. Altrettanto strutturali rispetto al dispositivo cinematografico sono gli interventi buffi, da puro cinema delle origini, momenti in cui il flusso delle immagini si sofferma su un dettaglio, più o meno significativo: un uomo corpulento che ha dimenticato qualcosa in casa, un alberello in balia delle raffiche di vento, sottolineati da didascalie ironiche: i corpi e gli oggetti sono ricollocati al centro del senso primo del filmare, l’insignificante diventa significante, si fa attrazione, anche solo per un attimo.
Ne nasce, indistricabile dalla storia del ballerino e del soldato, una city symphony – e bisognerà ricordare, a proposito, che anche l’uso della musica è molto spesso sorprendente – che è un inno alla propria città natale, Tbilisi appunto, agli angoli più nascosti dei mercati, dei quartieri che un tempo furono eleganti, ai parchi, alle fontane, alle colonie di gatti e cani che, insieme alla popolazione, resistono a un senso di instabilità politica, a quell’idea di guerra latente che, per tre volte, viene rievocata nel racconto del burro sciolto e del suo odore che si fonde indissolubilmente a quello di un frigorifero lasciato troppo a lungo staccato dalla corrente: perché le immagini di Let the Summer Never come Again, in questa loro qualità condensata, grumosa e improvvisamente luminosa toccano spesso da vicino l’esperienza sinestetica, si aggrappano al portato esperienziale dello spettatore. Come pare di sentire, per esempio, l’odore dei portici del mercato, o quello della stazione triste e fredda, e dei treni di notte che vediamo all’inizio e alla fine, così vicini al senso di desolazione che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha provato.
In fondo, al mondo si producono miliardi di matite: i grandi artisti sono rusciti a far sortire le proprie idee, invenzioni, capolavori dalla punta del lapis, questo non toglie che miliardi di persone non siano in grado di andare oltre lo scarabocchio. A suo modo Koberidze ce l’ha fatta, a mandare in porto la propria idea, un piccolo grande capolavoro girato in punta di telefonino.