Il fashion district a Manhattan, la San Fernando Valley, Tinseltown L.A. e ora i sobborghi di Orlando. The Florida Project è un’altra fermata del viaggio di Sean Baker attraverso gli Stati Uniti, una specie di Great American Road Trip in chiave marginale. Seguire il cinema di questo regista è infatti un po’ come salire su un Megabus che fa fermate eccentriche. E questa volta si fa tappa a Orlando, Florida. Lo sguardo di Sean Baker (che qui abbandona l’IPhone con cui seguiva le trans protagoniste di Tangerine per un 35mm pieno e avvolgente) non si dirige però a Disneyland, la meta per eccellenza di chi va in quella parte degli States, ma gli dà le spalle per guardare al di là della strada.
E il controcampo del Disney World Resort, “il posto più felice sulla terra”, è un complesso di motel popolato da un’umanità liminale che vive la propria esistenza sulla soglia. Il motel è infatti un sistema sociale, un microcosmo in cui si vive ma non si abita, in cui si alberga, senza una reale separazione tra interno e esterno, tra rassicurante e spaventevole. Si vive sulla porta, continuamente aperta e chiusa, continuamente bussata. La relazione che si instaura tra l’al-di-qua e l’al-di-là del limite, come diceva Bachelard, è una lotta, un confronto doloroso e lacerante in cui identità e alienazione interagiscono vacillanti accarezzando la continua possibilità di trasformarsi nel proprio opposto. Ed è così che vivono i personaggi del film, aprendo e chiudendo le porte delle loro camere, locazioni temporanee divenute definitive per le storture dell’esistenza.
Ma The Florida Project prende tutto questo e ne fa una specie di fumetto sfavillante scegliendo di raccontare quell’umanità e quel sistema sociale attraverso la prospettiva dei bambini. Monelli selvaggi e indomabili, “piccole canaglie” irrefrenabili che vivono la loro infanzia senza regole e senza limiti, forse proprio perché il limite è la loro stessa esistenza. Scenette, quadretti, nessun evento ma un susseguirsi di momenti che suggeriscono come tutto vacilli sotto i rutilanti colori di quel mondo in ci si riconosce attraverso la sfumatura cromatica che hanno i muri del motel che si occupa. Moone, la protagonista del film, è la bambina dell’edificio viola, ed è la più vulcanica, la più ingestibile, la più disperata.
Tutto vacilla ma tutto si regge grazie a Bobby (un Willem Dafoe in forma smagliante, la misura nell’universo dell’eccesso). Nella palette di tipi umani che popolano il motel e l’orizzonte di Moone e dei suoi amici c’è infatti solo un punto di riferimento: Bobby, che diventa il cardine di tutta la struttura narrativa del film ma anche il fuoco di tutta quella realtà malferma. Bobby è infatti il manager del motel, ovvero la chiave di volta della relazione tra interno ed esterno, ed è il detentore dei segreti di ognuno. Mentre amministra il motel, gestisce anche quelli, sempre sul limite, sempre sulla soglia, sempre pronto a bussare alla porta. Bobby continuamente tirato verso l’interno ma al contempo estromesso, è il mediatore, l’unico a saper gestire la situazione, a proteggere i bambini, a fare in modo che, come l’albero preferito di Moone, continuino a crescere anche se piegati dalle intemperie.