Come si diventa grandi da soli? Senza nessuno che ci insegni a convivere con gli errori, le paure e le incertezze della vita? E sperimentando, magari, solo forme di controllo, punizione ed esclusione?
In Don’t Forget Me, coming of age inconsueto, l’esordiente Ram Nehari sembra chiedersi questo. Tutto nel film sembra fluire con leggerezza, anche le cose brutte, e i protagonisti nonostante gli sconvolgimenti, le dure prove con cui si scontrano e l’incomprensione di tutti nei loro confronti, affrontano tutto con spontanea fatalità e testarda fiducia in se stessi.
Costruito come una commedia – anche se in quello che racconta c’è ben poco da ridere – il film è la storia di Tom, una ragazza che soffre di disturbi alimentari e che per questo è ricoverata in clinica. Un giorno incontra Neil, che suona la tuba e non ha alcuna idea di cosa fare nella vita. Lei fugge dalla clinica, lui le dà una mano e progettano di andarsene a Berlino insieme, ma le cose, ben presto, si complicano.
È proprio in questa forma aperta, in questo incedere quasi accidentale, che il film di Nehari trova la propria riuscita. La peregrinazione senza meta e senza scopo dei due protagonisti per la città, rappresenta senza dubbio la metafora della loro perdita di coordinate esistenziali, ma è anche – a ben vedere – anche quella di uno smarrimento oggettivo.
Lo smarrimento di una generazione che non sa letteralmente dove andare e che – come racconta (fra le tante cose che è e dice) anche Foxtrot di Samuel Maoz, vincitore del Gran premio della Giuria all’ultima Mostra di Venezia – resta intrappolata. Neil si sente rimproverare dal padre di Tom di non avere nemmeno un vero accento israeliano (è nato in Olanda, cresciuto in Israele ma poi tornato a studiare ad Amsterdam), ovvero di non avere qualcosa che lo identifichi come depositario di una cultura. La sua non appartenenza, il suo essere straniero in un paese che, fra l’altro, confina solo con nazioni con le quali è in perenne conflitto è quindi davvero un essere fuori luogo, inteso proprio come stare fuori da uno spazio. E fuori da uno spazio è anche Tom, che non ha un posto dove stare: non la clinica dove risiede, che non è casa sua e dalla quale fugge non appena può, ma nemmeno la casa dei suoi genitori dalla quale viene espulsa, allontanata, mandata via.
E se sembra che l’incontro fra Tom e Neil, in virtù di tutto questo, sia scontato e destinato a unire i loro destini, non è così. Forse la loro storia funzionerà, forse i sentimenti che provano l’uno per l’altra si trasformeranno in amore, eppure il film mostra un rapporto costruito su un bisogno che è molto più primitivo dell’amore. Non si conoscono, parlano poco e appena si incontrano lei gli pratica del sesso orale che non ha nulla a che fare con l’invaghimento o con l’amore, ma nemmeno con la sfera degli istinti carnali. È solo una moneta di scambio perché lui l’aiuti a scappare. Mentre lui resta con lei e le proporne di seguirla in Germania senza sapere davvero perché.
Ad accomunarli davvero è il loro modo testardo e impulsivo di concepire la vita e la loro voglia (che è un diritto e anche un bisogno) di commettere errori. Di essere outsider senza che nessuno li obblighi a essere qualcos’altro e che li costringa a cambiare. Ma anche la possibilità di trovare un luogo dove stare al mondo.