Moving as in a trance
destination did not matter…
Mr. G - Pause 4 Thought "With You" feat. Garfield King
Per chi ha vissuto anche solo la coda del ’900, negli ultimi decenni del Secolo breve, non volendosi allineare all’ordine orrendo, due erano le vie da percorrere: fight the system o fuck the system.
Mentre la prima veniva sostenuta da una logica e una razionalità ferree, dalla lettura di testi fondamentali che fungevano da basi teoriche, dalla partecipazione all’attività politica, fino a arrivare alla messa in pratica di una strategia ben precisa e alla lotta, la seconda, portava con sé la carica sovversiva (e di resistenza) di un radicale cambio di frame: io non lotto contro il tuo sistema, non entro nel tuo gioco, lo saboto dall’esterno, alzando il dito medio e tirandomene fuori. «Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento / sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore» (Enzo Del Re).
Ecco dunque a incarnare l’ondata fricchettona i personaggi di Thomas Pynchon e di Roberto Bolaño, Doc Sportello da una parte e Juan García Madero dall’altra, solo per citare i più noti ed “evidenti”, fino a Charles Bukowski, e al fantasmatico corrispettivo cinematografico Jeffrey “The Dude” Lebowski. Ma ognuno di loro possedeva una carica eversiva e politica che, con l’inizio degli anni 2000, è andata irrimediabilmente persa.
E non perché, come alcuni revisionisti fanno notare, lo spirito fricchettone avesse qualcosa in comune con quello che sarebbe stato definito l’edonismo consumista anni ’80, che in Italia si andava declinando nella Milano da bere. Tutt’altro. Piuttosto avrebbe trovato nella strofa, nemmeno troppo sibillina di Franco Battiato, «Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare», un’irrimediabile verità.
Da qui bisognerebbe partire per parlare del sorprendente esordio di Pedro Cabeleira, Verão Danado, che solo per un fraintendimento potrebbe essere associato a Spring Breakers di Harmony Korine (2012). Per le quattro ragazzine messe in scena da Korine il grido di battaglia era “Spring break forever”, e lo sballo perpetuo andava declinandosi nella totale indistizione, nella maniera in cui varia il sapore di quelle caramelle dai colori sgargianti e fluo, dove le caramelle verdi dovrebbero avere il gusto della menta e quelle rosse della fragola, mentre tutte hanno lo stesso incomprensibile sapore adulterato. Esperienza e simulazione per le quattro adolescenti sono indifferenti, quel che sembra interessare loro è il prendere parte a un rituale, mettere in atto una spinta bulimica, identica a quella che porta a ingurgitare qualsiasi cosa capiti sotto mano, meglio se di sapore confuso, per appagare la fame chimica. Il loro fine ultimo, di cui sono pienamente coscienti, è la realizzazione di un godimento inesauribile.
Per Chico e il suo gruppo di amici e conoscenti, protagonisti del film di Cabeleira, la situazione è piuttosto diversa. Innanzi tutto sono assai meno consapevoli e la loro volontà è assai più sfilacciata rispetto alla determinazione delle ragazzine di Korine. Chico ha lasciato un piccolo paese del Portogallo, dove è cresciuto accanto a nonni e parenti, per andare a terminare gli studi a Lisbona e trovarsi un impiego. Ma arrivato nella capitale, si lascia prendere da una specie di indolenza, una pigrizia che va a celare la totale mancanza di aspettative per il futuro, trascorrendo le notti tra feste psichedeliche, droghe, invaghimenti momentanei.
Il suo vivere in un ostinato presente, se da un lato gli permette di allontanare sia i ricordi e la dolcezza del passato, sia di mettere a tacere l’angoscia per l’assenza di prospettive, dall’altro gli consente non solo diincarnare alla perfezione un’epoca e le conseguenze di una condizione sociale e politica che difficilmente lascia spazio alla concretizzazione di qualcosa che sia poco più che effimero, ma che al tempo stesso lo porta a esperire tutto con estrema vitalità.
Chico non simula né divertimento, né dolore, né tanto meno desiderio. Tutt’al più la delusione amorosa viene presto scordata, a una festa se ne aggiunge un’altra, le parole di un amico si perdono appena, nel corso del pomeriggio, la luce cambia e si avvicina la sera. Ma questo non significa che ogni azione e ogni sentimento non siano vissuti appieno. Semplicemente adattano il loro tempo a quello di questo preciso momento storico, che, appunto, non fa che ripetersi in un eterno presente.
Lo sguardo di Pedro Cabeleira, appena venticinquenne, è assai preciso sulla realtà che mette in scena e fortunatamente privo di qualsivoglia moralismo, trattando ogni evento come un “dato di fatto” e donando ai suoi protagonisti un’umanità né disperata né battagliera, ma fresca, vivace, dovuta alla giovinezza che, benché ingabbiata in una situazione di crisi collettiva, porta con sé la curiosità e gli slanci propri di quell’età.
Cupo e allegro al contempo, Verão Danado ha l’ambiguità dei grandi film, o semplicemente di qualsiasi essere umano che, messo alle strette, trova nella via di fuga un modo per rimanere in piedi.