Rivedendo oggi Carrie – che evidentemente, come ogni capolavoro che si rispetti, non si finisce mai di conoscere – stupiscono almeno un paio di cose: il radicale pessimismo di questo coming of age funereo e disperato (sì, alla fine aveva ragione Piper Laurie/mamma di Carrie: il mondo è il regno di Satana; e ancora sì, se sua figlia andrà al ballo, poi tutti rideranno di lei); la trasparente, quasi umile metafora del pre-finale, in una scena assente dal romanzo di partenza di King; la casa che implode seppellendo madre e figlia come riflesso di un corpo (adolescenziale e quindi mutante per definizione) che, scisso tra ragione e superstizione, fiducia e diffidenza, speranza e disillusione, finisce per collassare, cedendo di schianto. Carrie come casa/corpo 40 anni prima della Jennifer Lawrence di mother!, che si apre al mondo e ne resta lacerata, che torna a casa per espiare i suoi peccati e accetta di morire abbracciata alla madre, mentre il simulacro di un grottesco Cristo capellone assiste indifferente alla rovina. Gli adolescenti di John Hughes sono quasi sulla soglia, ma sembrano ancora distanti anni luce.