Palermo è da sempre affacciata sull’abisso e perciò prossima ad un’esplosione fatale. Parlarne esige quindi modalità espressive conformi a questo ineluttabile senso di fine.
In principio furono quadri di macerie e nuvole a raccontare per immagini questo mondo tellurico, prefigurante l’avvento di un Dopostoria o di una Nuova Preistoria; con Gli uomini di questa città io non li conosco Franco Maresco sceglie invece di intonare un canto funebre, comporre un’elegia in memoria di Franco Scaldati, il Sarto, immersosi nelle profondità ctonie della città per ripotarne in superfice la voce viscerale, una voce infantile da intendersi come condizione di chi è ancora fuori dal linguaggio, e con questa un circo di terremotati, di anime in pena, di uomini destinati a soccombere di fronte al male che ne determina l’esistenza, e che, pur esposti all’oblio, continuano a vivere, ad affacciarsi ai margini della scena, per puro istinto, senza l’angoscia della sopravvivenza («Mettiamo che Lucio (gobbo e mutilato) sia l’ultimo uomo, mettiamo che Lucio abbia del passato un vago […], mettiamo che Lucio senta nella luce l’unica (prima o ultima) possibilità di essere»).
Scaldati, scomparso nel 2013, è stato un esempio di resistenza morale e culturale di fronte alla barbarie che avanza senza tregua, autore di un’opera capace di ferire (e che per questo il mondo della cultura, troppo spaventato di sanguinare, ha preferito ostracizzare) a cui Maresco ha sempre guardato (collaborarono nel Il Ritorno di Cagliostro, Viva Palermo, viva Santa Rosalia, e per l’adattamento scenico di Lucio), ispirandovisi (da quel poco che si è scritto non è difficile credere che probabilmente senza il teatro del primo difficilmente avremmo avuto il cinema del secondo) e rispecchiandovisi.
Del resto un ritratto è molto spesso un autoritratto (così era già stato per Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz). Ed è proprio nell’intravedere questa continuità che il senso di perdita si intensifica. Maresco raccontandoci la (mala)sorte dell’autore del Pozzo dei pazzi, e con lui della città di cui ha cantato la scomparsa, prefigura per lui la stessa sconfitta. Ancor più dolorosa quindi, tenendo conto di questo cortocircuito, la sequenza finale, quando, a due anni dalla morte, si è costretti ad assistere alla rimozione sfrontata, da parte del pubblico palermitano, della figura e dell’opera di Scaldati.
Ma come lui stesso scrisse: «La bellezza è degli sconfitti. Il futuro non è dei vincitori, è di chi ha la capacità di vivere. E chi ha la capacità di vivere, di essere totalmente se stesso, è inevitabilmente sconfitto. È qui il seme che crea e si traduce in futuro, vita: una sconfitta di straordinaria bellezza. Le facce degli sconfitti, le loro voci, continuano ad esistere. Sono i vincitori che non esisteranno più. Questo è il grande splendore dell’esistenza».