Dopo il successo dell’esperienza VR The Key, Céline Tricart torna a Venezia con Fight Back, un’opera situata all’intersezione tra videogame VR, fantascienza e documentario. Nell’esperienza della durata di circa 30 minuti, l’utente si trova catapultato in un’ambientazione stellare, un cielo intergalattico scuro e attraversato da nebulose. Qui, l’avatar assume le sembianze di una creatura luminosa, una stella appena nata che, come nel più classico dei videogame, deve portare a termine una missione: liberare le proprie stelle sorelle dalla minaccia delle ombre, mostruose presenze oscure e fiammeggianti, che incombono. Solo così la loro costellazione potrà tornare a brillare.
Le stelle sono rappresentate come entità luminescenti incarnate in corpi di donna: perfetti, statuari senza volto, un condensato di un’idea idealizzata della femminilità. Man mano che completiamo i livelli del gioco sono loro ad insegnarci le tecniche che ci occorrono per sconfiggere le ombre. Muovendo il busto e le mani possiamo infatti far apparire scudi e sferrare attacchi, ossia reagire alla costante invasione del nostro spazio peripersonale ad opera di queste creature maligne.
L’opera sfrutta l’implementazione dell’hand tracking per agire sulla memoria motoria: a mani nude (non serve utilizzare i controller) l’utente esegue le tecniche di autodifesa e ripetendole le impara e le fa proprie. Le ombre diventano sempre più minacciose e allo stesso tempo una voce insistente alimenta la nostra insicurezza, ricordandoci la nostra fragilità e scoraggiandoci. Superato l’ultimo livello, ecco svelata la metafora siderale del videogame: le stelle che abbiamo contribuito a salvare assumono le sembianze di donne che nel corso della Storia hanno reagito alla violenza fisica (fight back) senza farsi sopraffare. È il caso, tra le altre, di Edith Garrud, suffragetta e prima insegnante nel Regno Unito di jujitsu per le donne, di Ng Mui, la Shaolin che nel XVIII secolo ha inventato il Wing Chun, la prima forma di arte marziale pensata per la corporatura femminile, fino alle Karate Grannies, un gruppo di donne kenyane che insegnano l’autodifesa per proteggersi dalle violenze sessuali. La conclusione dà senso all’apprendistato che abbiamo intrapreso nel corso dell’esperienza.
Tricart offre una un’esperienza di empowerment – termine abusato dal femminismo neoliberista per descrivere la presa di coscienza da parte delle donne del proprio valore e in questo caso della propria forza–. Le tecniche di difesa personale, dunque, di cui la stessa autrice è esperta praticante, sono viste come uno strumento di liberazione ed emancipazione dalla violenza maschile e dalla propria debolezza. In questo modo, Fight Back offre un processo attivo di costruzione della memoria: le ombre, oltre a trasfigurare l’aggressore, sono metafora dell’oblio che troppo spesso avvolge il contributo delle donne alla Storia. Fight Back si inserisce nel solco della tradizione artistica femminista che lavora sull’idea di Herstory, ossia sulle riscritture del passato che valorizzano il ruolo attivo giocato dalle donne. È specialmente ad un’utenza femminile che Tricart rivolge la sua opera: il nemico più difficile da contrastare infatti non è l’aggressore in sé, quanto l’insicurezza interiorizzata, la presunta fragilità che la società patriarcale ha tradizionalmente attribuito alle donne. Ad un livello più semplice, la formula del videogioco incoraggia le giocatrici a sentirsi all’altezza all’interno di una comunità di gamer ancora condizionata da stereotipi maschilisti.
L’esperienza è potente nel veicolare il suo messaggio, consentendo una presa di coscienza basata sul proprio corpo, di fatto trasfigurato e potenziato dalle tecniche di autodifesa personale. Tuttavia, dal punto di vista politico femminista, Fight Back solleva alcune questioni critiche. Tricart da un lato contrasta l’ideologia che vuole la donna sempre vittima, dall’altro asseconda l’altrettanto pericolosa concezione neoliberista della donna forte, capace di resistere a qualsiasi avversità. Infine, sebbene il genere dell’avatar non sia specificato, esso si identifica chiaramente con un’immagine stereotipata del genere femminile, rappresentato ricadendo nella norma della perfezione fisica. Al netto di queste tensioni, Fight Back è un training incentrato sul corpo che, indipendentemente dall’identità di genere, restituisce all’utente una nuova e aumentata immagine di sé.