Settimana della Critica

Anywhere Anytime di Milad Tangshir

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Il soggetto di Ladri di biciclette era semplice, e universale.  Nella Roma del dopoguerra, ad Antonio viene rubata la bicicletta, indispensabile per il suo lavoro di attacchino. Con il figlio vaga per la città alla ricerca del ladro, finché non decide di tentare a sua volta di rubarne una. Nella Torino di oggi, Issa è un giovane senegalese clandestino che, dopo aver perso il lavoro al mercato di Porta Palazzo, finisce fortunosamente a fare il rider. Anche la sua bicicletta viene rubata, e anche lui si ritrova a vagare per la città nel tentativo di ritrovarla. Anywhere Anytime di Milad Tangshir, in concorso alla Settimana della Critica, ci ricorda l’universalità della storia narrata da De Sica proprio a partire dal titolo: quel furto può avvenire ovunque, in qualsiasi tempo. Ma se a subire il furto è un migrante clandestino nell’Italia di oggi, la sua erranza si colora di disperazione e diventa una vera e propria lotta per la sopravvivenza. 

Issa, benché condivida il destino di molti, è solo, relegato nell’invisibilità. Tutto quello che gli sta intorno gli è estraneo, talvolta ostile, e il film di Tangshir riesce, proprio a partire da una serie di scelte stilistiche nitide e rigorose, a ragionare sul presente confidando nel potere delle singole inquadrature: guarda con gli occhi del protagonista e, al contempo, si muove con lui, a incarnare la sua identità sfuggente e in fuga attraverso le sue pedalate, le sue corse precipitose per una Torino solo a tratti riconoscibile. Marginale, composta di scorci orizzontali, mossa, caotica, rumorosa. Una metropoli simile a tante altre dell’occidente globalizzato. Issa ha il volto smarrito di Ibrahima Sambou, attore non professionista che sa agire il proprio inevitabile spaesamento facendolo diventare la sostanza della sua presenza sullo schermo.

In una dialettica tra staticità e movimento, tra pause e accelerazioni, tra spazio e personaggio, Tangshir trova sempre la giusta altezza di sguardo, e la giusta misura del tempo. Tutto passa attraverso il corpo del protagonista, che la camera segue, anticipa e talvolta abbandona. I tre giorni in cui si sviluppa la vicenda (come nel film di De Sica) sono scanditi da una serie di episodi, incontri, occasioni mancate. Momenti in cui Tangshir si sofferma su altre storie marginali, su volti eloquenti benché talvolta muti, come nella scena della mensa in cui un susseguirsi di primi piani ci fa associare storie e provenienze diverse, tutte accomunate dalla povertà e dal bisogno di un pasto caldo. L’incontro con una signora anziana che, a sorpresa, lo fa entrare nella sua casa, è emblematico di spazi fisici e narrativi che si aprono per poi chiudersi su se stessi. Fino a una scelta – in realtà puro istinto di sopravvivenza – che ha conseguenze drammatiche. Issa a questo punto è completamente alienato rispetto a uno spazio che si fa più ostile e sembra trasformarsi in una selva di biciclette – nessuna destinata a lui. È costretto a lasciare tutto dietro di sé, un’altra volta, anche perché non c’è nessuno che alla fine gli tenda una mano – come invece faceva il piccolo Giuseppe con il padre nel finale di Ladri di biciclette. L’universalità deve lasciare spazio a questo tempo, a questo presente. Issa non ha un figlio né, tantomeno, un padre. È come un orfano che deve trovare il modo per andare avanti. Concedendo a Issa la sola forza di continuare a lottare per sopravvivere, Anywhere Anytime abbandona il modello nel punto cruciale, politicamente dirimente, per raccontare con nitidezza la condizione di chi arriva qui in cerca di una vita migliore. Senza rete, senza voce, costretto a rendersi invisibile.