Concorso

April di Dea Kulumbegashvili

focus top image

Una creatura apparentemente umana dall’età e dal sesso indefinibili, in bilico forse tra morte e (ri)nascita, viene fagocitata dal buio della notte, mentre lo spazio sonoro è invaso da voci infantili. Piove, sulla campagna georgiana, allagando d’acqua e di fango i terreni e le strade. Progressivamente mettiamo a fuoco il personaggio di Nina (Ia Sukhitashvili), che è un’ostetrica e ginecologa esperta, attiva nel reparto maternità di un ospedale nella rurale Georgia orientale. Dopo un travaglio complicato – mostrato in piano sequenza, espulsione e taglio del cordone inclusi –, un bambino prematuro muore e il padre, sconvolto dal dolore, chiede un'indagine sui metodi della dottoressa che lo ha fatto nascere. Il controllo che ne consegue minaccia di portare alla luce la linea di condotta di Nina, che da tempo si preoccupa, fuori orario lavorativo, di raggiungere in auto, attraverso le strade accidentate di una campagna vasta e meravigliosa, le case delle ragazze e delle donne incinte, per praticare aborti non autorizzati o anche solo per aiutarle a prendere consapevolezza del proprio diritto alla contraccezione. Se questo venisse allo scoperto, la sua carriera, l’unica fonte di senso della sua vita, sarebbe distrutta.

«Aprile è il mese più crudele:/ Genera lillà dalla terra sterile,/ Confonde memoria e desiderio,/ Smuovendo radici torpide/ Con pioggia di primavera». Ci aiuta e ci aiuterà sempre il T. S. Eliot della Terra desolata (o del Paese guasto, come recita il verso dantesco a cui il poeta novecentesco si ispirò) a interpretare un certo tipo di immagini e immaginario. E non stupisce affatto che Dea Kulumbegashvili abbia scelto per il titolo della sua opera seconda il nome del mese più crudele, quello del Sacre du printemps di Stravinskij, che, non dimentichiamo, mette in scena il sacrificio di una giovane per propiziarsi il dio della primavera e della fertilità, rito che si svolge sotto l’autorità e lo sguardo di un gruppo di “vecchi saggi”. Come Stravinskij, che fece sollevare sopracciglia e saltare bottoni di marsine e monocoli pur di andare dritto all’effetto estetico che aveva in mente, anche Kulumbegashvili costruisce April combinando rigore e uno sprezzo del fantastico e del grottesco che affonda le radici nella tradizione del cinema pansovietico di quando lei, nata a Orël nel 1986 ma cresciuta nella piccola città georgiana di Lagodekhi, era bambina. 

Per realizzare April, prodotto tra gli altri da Luca Guadagnino, Kulumbegashvili ha passato mesi a seguire da vicino il lavoro dei medici di un’ospedale e la vita di pazienti e famigliari provenienti dalle aree rurali circostanti, un osservatorio privilegiato per rilevare la distanza quasi incolmabile tra il potenziale espresso dallo Stato attraverso il sistema sanitario e la mentalità di una popolazione che vive aggrappata all’idea di un’indifferenza delle strutture amministrative, a modi e cicli inattuali, in cui le ragazze si sposano a 13 anni e ci si aspetta che siano madri a 15, in cui l’incesto e la prevaricazione sono all’ordine del giorno; un sistema da cui appunto contraccezione, aborto, emancipazione della donna sono esclusi.

Nel passaggio al film di finzione, la questione per Kulumbegashvili è dare forma a una storia dove questi temi si sviluppino. Lo fa attraverso un uso rigoroso dell’immagine, quasi sempre in piano sequenza, adottando lo standard classico del formato 1,33:1: una ratio nella quale la fisicità snella e allungata della protagonista Nina è, nel suo essere sempre vigile, dritta, quando non in piedi, misura e punto di distorsione della visione.

Nelle mani del direttore della fotografia Arseni Khachaturan (che Guadagnino aveva già “preso in prestito” per Bones and All), il formato condiziona ogni possibilità di allargare lo sguardo, o meglio, lo subordina a movimenti di macchina che hanno del miracoloso. Una scena in particolare, sicuramente memore del cinema di Carlos Reygadas (produttore del precedente Beginning) sembra riprendere e arricchire di un’altra armonia quel modello: dopo aver lungamente indugiato su un temporale incipiente nel quale le nuvole sembrano essersi date appuntamento per dare una dimostrazione muscolare al sole, assumendo forme e intensità cromatiche che farebbero piangere di gioia anche Leonardo da Vinci, una panoramica da destra a sinistra accoglie l’inizio di una pioggia torrenziale per finire lentamente su una spianata dove la strada non si distingue più dai campi, e il fuoristrada di Nina rimane impantanato, in alto, appena fuori dall’angolo sinistro del frame, perché lei in quella situazione è rigettata e impantanata allo stesso tempo. 

È un formato che consente a Khachaturan e Kulumbegashvili di elaborare anche piani fissi clinici, nitidissimi e altri straordinariamente pittorici, non solo quelli dove il paesaggio è padrone, come i campi invasi dai papaveri sotto la luce mutevole del sole, quasi inattesa, ma anche ad esempio quello intorno al personaggio di Nina, seduta al tavolo nel controluce lunare di un ritratto metafisico. Un formato che sa mantenere il fuori campo quando è necessario, come accade in una lunga scena di chirurgia domestica, sul tavolo squallido di una cucina, o come fa con i controcampi rinviati nelle scene di confronto in ospedale tra Nina e i suoi superiori. 

Mantenere fuori campo, rinviare all’interno dello stesso spazio, lavorare sulla durata, sul tempo: «quanto ci ha messo a morire» una ragazza vittima di una violenza domestica inenarrabile? Quanto ci ha messo la sorella di Nina a essere inghiottita dal fango? Una durata che riverbera nella sintassi astratta e rarefatta dei dialoghi, dove le parole sembrano avere un peso maggiore dei corpi. Un tempo che contrasta, anche meteorologicamente, ogni forma di progresso.