Rodrigo Sorogoyen ci ha abituato a un uso delle immagini e della scrittura che si è fatto sempre più riconoscibile e distintivo della sua personalità autoriale. Uno stile, il suo, in cui la forma e il ritmo del racconto - anche ma non solo nel pianosequenza - corrispondono sempre con molta precisione a ciò che il loro autore vuole che le immagini suggeriscano e lascino dire, senza artifici o esibizioni. Anche quando attraverso il genere (cinema o serie che sia) ci ha detto del sedimento della Storia e dei riverberi dei suoi retaggi nella società spagnola, anche quando ha guardato a una dimensione più intima in cui i traumi personali (come in Madre e in As bestas) sono lì a dire - o quantomeno a provare a ragionare - su cosa metta in forma l’identità profonda dell’individuo.
La nuova serie presentata in anteprima a Venezia e, come Antidisturbios, prodotta da MovieStar +, è un’altra dimostrazione del suo talento cristallino e della sua capacità unica di guardare all’essere umano e alle sue complessità. Questa volta lo fa misurandosi con la commedia romantica raccontando di Oscar e Ana che si conoscono per caso una notte di capodanno. Lui medico internista precario in pronto soccorso, lei barista in un locale cool di Madrid con un visto di lavoro per il Canada quasi in scadenza. È l’ultima sera del 2015, hanno entrambi trent’anni, lui l'ultimo nato del 1985, lei la prima del 1986, bevono, vanno a una festa, finiscono a letto insieme e insieme si risvegliano il primo dell’anno successivo improvvisando un pranzo a Valencia che non riusciranno a fare. Questo racconta il primo dei dieci episodi di Los años nuevos, che prosegue seguendo i due personaggi nell’evolversi delle loro vite e della loro storia d’amore nei dieci anni successivi. Ogni episodio, un nuovo capodanno: insieme, da soli, poi insieme ma diversi, poi chissà…
Lo spunto è semplice ma essenziale. Così Sorogoyen, come se aprisse una finestra sulla Vita (con la V maiuscola) a distanza di un anno, di episodio in episodio, racconta di questa evoluzione, di questa crescita. E mentre Ana e Oscar si innamorano, ridono, parlano, festeggiano, bevono, ballano, fanno l’amore, litigano, rompono, soffrono, prendono decisioni importanti - crescono appunto - noi ci innamoriamo di loro e delle loro vite che non vediamo mai direttamente sullo schermo.
Sono quelle notti di capodanno i frammenti temporali che Sorogoyen usa per portarci dentro al racconto con dialoghi perfetti e mai pleonastici che suggeriscono e fanno immaginare tutto ciò che non abbiamo visto, che sta fuori campo, fuori dalle immagini e al quale abbiamo comunque accesso in quel tempo sospeso per definizione, quello del capodanno, 24 ore in cui si fanno bilanci dando un voto all’anno che si chiude e facendo progetti per quello che arriva. E mentre delusioni e aspettative, fallimenti e sogni si mescolano in un passaggio segnato da 12 acini d’uva e da un’infinità di parole, noi consociamo non solo Oscar e Ana ma anche i loro amici, i loro genitori, le loro case, le loro storie e insieme guardiamo altre relazioni, altri modi di vivere e di intendere l’amore, il bisogno degli altri e il tentativo di conoscere se stessi. E crediamo così tanto a quello che vediamo da poter fermare il flusso emotivo, l’identificazione e l’empatia solo per riconoscere quale diamine di straordinario talento sia quello di Sorogoyen (forse ancor più stupefacente qui dovendo ricorrere alla collaborazione con altri registi ai quali vengono affidati alcuni episodi).
Ci innamoriamo del fascino spontaneo, intrigante e dolce che dà ad Ana Iria del Río e ci innamoriamo del sorriso improvviso e dello sguardo vivace e triste che Francesco Carril dà a Oscar, due attori ai quali viene chiesto tanto, tantissimo da Sorogoyen che è però capace - evidentemente - di condividere con loro l’intenzione e l’anima che vuole dare ai suoi personaggi, mostruosamente credibili, naturali, umani. Perché ai personaggi di un film (che è una serie oppure un mega film di otto ore, se c’è una differenza ed è possibile o ha senso provare a capire quale sia) vivaddio si può anche voler bene ma serve verità, serve sensibilità, serve umanità e capacità di tradurre tutto questo in immagini, di essere lì con la macchina da presa e con la volontà non di esibire ma di raccontare per interrogarsi.
Rodrigo Sorogoyen è la dimostrazione che il cinema ha e continua ad avere un senso, che si faccia chiamare serie o meno.