Youth, il lungo progetto che Wang Bing ha dedicato ai giovani cinesi che lavorano nei laboratori tessili di Zhili (città nel distretto di Huzhou, a 150 chilometri da Shanghai), è giunto ora al terzo capitolo, dopo l’iniziale Spring, presentato lo scorso anno a Cannes, e il successivo Hard Times, in competizione poche settimane fa a Locarno. Riprendendo la coda del film precedente, il nuovo Homecoming racconta il ritorno a casa per il capodanno cinese di alcuni protagonisti del film, in particolare quelli rimasti nei laboratori più a lungo dei colleghi perché senza soldi per il viaggio o in attesa di ricevere dal padrone una paga prevedibilmente al ribasso.
Le ore e ore di materiale registrate da Wang Bing, impegnato nelle riprese del film tra il 2014 e il 2019, fanno emergere ulteriori storie e ritratti. La ripresa del lavoro, che occupava buona parte delle oltre tre ore di Spring, qui lascia il posto al tempo libero che i protagonisti impiegano per sé stessi e le loro famiglie, al termine di un ciclo produttivo iniziato nel 2016 e terminato all'inizio del 2017. In sequenze come sempre ampie ed estese, in cui la macchina da presa riprende le figure immerse nei loro ambienti osservandole e talvolta interagendo con esse, Wang Bing trova splendidi momenti di cinema: un dialogo nel dormitorio fra due ragazzi senza soldi per partire; un affollatissimo viaggio in treno; un’impervia strada di montagna percorsa da un minivan; una festa di matrimonio; le celebrazioni del capodanno tra centinaia di fuochi d’artificio…
Il metodo documentario del regista cinese, che lavora soprattutto sull’assemblaggio del materiale con l’intento di creare il mosaico di una generazione di lavoratori, rivela in questo film un’ulteriore sensibilità per i dettagli. Nei miseri villaggi di montagna a cui i ragazzi e le ragazze fanno ritorno, tra la neve e il colore spento dell'inverno (laddove in Spring regnavano invece i colori accesi delle stoffe), il film entra in case spoglie dai pavimenti ancora in terra battuta, con il fumo delle cucine che invade ogni cosa, i genitori e i nonni che vivono ammassati, gli avanzi di cibo conservati per non patire la fame, tra un pasto collettivo e una festa di matrimonio a cui partecipa l'intero villaggio.
In altre provincie più benestanti dove altri lavoratori si recano, anch'essi seguiti dalla macchina da presa di Wang Bing, gli ambienti sembrano più borghesi e benestanti, le case hanno cancellate di ferro e i pavimenti le piastrelle, ma la Cina appare sempre come un Paese in cui il lavoro è la sola realtà conosciuta. Lavoro per il lavoro stesso, in realtà, nemmeno lavoro per guadagnare: solo lavoro per sopravvivere e considerarsi parte di una società.
Di tutto il resto che l’idea del ritorno a casa può evocare – il calore di una famiglia, la serenità di un amore, il ritrovare un’amicizia – in Homecoming se ne vede pochissimo. E non perché Wang Bing scelga di non filmarlo, ma perché, semplicemente, sembra non esserci.
«Il futuro di fronte a me nemmeno lo vedo», dice una delle ragazze del film: in fondo, il ritorno a casa è solo una pausa dalla vita lavorativa, e quando questa ragazza tornerà a Zhili dopo le feste, sempre a tagliare pezzi di vestiti assemblati poi da altri, semplice ingranaggio di un processo meccanico che prevede ancora la presenza dell’uomo (e in una conversazione in treno si ascolta pure la storia di un padre di famiglia risucchiato da un macchinario), per lei come per le altre e gli altri tutto sarà come prima. E un’altra primavera tornerà, chissà se e come raccontata dal prossimo capitolo di questo grande film collettivo.