Pensato come una saga in quattro capitoli e circa dodici ore di durata Horizon non ha una struttura antologica – come quella che può essere di Star Wars o Il signore degli anelli per dire – dove ogni episodio ha una sua forma compiuta e “risolta”. È piuttosto un flusso narrativo continuo, che – come è più tipico della serialità televisiva – scorre idealmente senza interruzione fra una parte e la successiva. Considerare quindi questo secondo capitolo – presentato Fuori concorso qui a Venezia, dopo che il primo era passato a Cannes lo scorso maggio – come qualcosa che non sia in assoluta continuità con il primo è un evidente errore. La storia infatti ricomincia esattamente da dove era finita, i tre segmenti narrativi – ambientati fra il Montana, l’Arizona, il Wyoming e la bassa California – vanno avanti e iniziano lentamente a intersecarsi. Con la sola novità di un incipit – ripreso poi nel finale che, come nel capitolo precedente, chiude con l’anticipazione di quel che verrà – in cui vediamo introdotto un nuovo personaggio: H. Silas Pickering (Giovanni Ribisi), ricco affarista di Chicago che è il proprietario della terra sulla quale sta sorgendo la città di Horizon, in procinto di raggiungere i suoi possedimenti attraverso un (presumibilmente pericoloso) viaggio in treno e diligenza.
Al di là delle storie, sulle quali non ci soffermiamo e di cui gli spettatori del primo episodio immaginano facilmente lo svolgimento, in questo prosieguo emerge con ancora maggior chiarezza il progetto che Costner e lo sceneggiatore Jon Baird hanno in mente. Ovvero quello di raccontare la nascita di una nazione attraverso un’epopea che intreccia le sorti di personaggi chiave della mitologia della frontiera – i coloni, gli uomini di legge o comunque d’ordine, i banditi e le canaglie, le prostitute, i soldati, gli indiani... – ma di farlo mettendo a nudo la dimensione storico-ereditaria, anche in termini politici, di tutto questo.
Perché sotto al suo incedere classico Horizon nasconde uno sguardo per nulla riconciliato sulla storia (intesa con la esse maiuscola) che mette in scena. A lato della guerra civile – siamo nel 1863, nel pieno di un conflitto di cui a Ovest si avvertono a malapena gli echi – e con un occhio che non contempla la dimensione mitologica della Frontiera, il film si sofferma soprattutto su due elementi chiave legati al genere western: l’occupazione delle terre e l’istituzione della legge. Benché lo script releghi le popolazioni native a un ruolo marginale mettendo al contrario i coloni al centro del discorso – e del resto Horizon, la città promessa da edificare nella San Pedro Valley, forza centripeta cui le vicende di tutti i personaggi ruotano, dà il titolo al film – la rappresentazione della la conquista della terra e dell’insediamento nei territori indiani che il film mostra ha a ben vedere un tono piuttosto controverso.
Come se Costner ragionasse sulla violenza della colonizzazione attraverso una messa in scena del tutto canonica, cui però allega una forma per così dire non conforme. E la ricostruzione del villaggio che nel primo episodio era stato raso al suolo dall’attacco degli Apache White Mountain, diventa una sorta di simbolo di questa appropriazione forzata. Con un senso di ingiustizia che, nonostante il tono edificante che permea tutto il segmento narrativo che fa da sfondo alla vicenda, appare evidente. Quando il film mostra la piccola comunità cinese che inizia a disboscare i dintorni dell’insediamento per procurarsi il legname da lavorare nella propria segheria, questo scollamento diviene esplicito. In una straordinaria inquadratura con angolazione dall’alto si vede infatti un bosco ridotto a una radura con alcuni cadaveri di braccianti cinesi a terra trafitti dalle frecce e un apache di spalle che conduce il proprio cavallo in mezzo a tutti quei tronchi tagliati. Poche immagini nel western (non solo contemporaneo) sono state capaci di una simile forza evocativa e di dare una tale profondità al racconto storico.
Anche se è sul discorso legato alla legge che Horizon assume un carattere ancora più complesso. Ognuna delle storie che il film racconta è ambientata in una differente comunità dove la legge è amministrata in modo completamente diverso. La carovana, l’insediamento coloniale, il campo di lavoratori della ferrovia, sono tutti spazi dell’Ovest morfologicamente e biologicamente diseguali. E in cui vigono forme di ordinamento più o meno violente e più o meno arbitrarie, che danno il senso di quanto quello che oggi definiamo come “nascita di una nazione” – nel suo concetto di sovranità statale e di forma unitaria – sia in realtà una storia fatta di dispersione e disomogeneità politica, sociale e culturale. E come non esista in questa storia nulla che sia riconducibile a un’idea identitaria e “nazionale”, nonostante la vocazione comunitaria (e per certi versi collettivista) che caratterizza l’idea romantica di colonizzazione che l’America si è sempre raccontata.
Horizon è quindi un’opera che mette in campo questioni molto più complesse – e contemporanee – di quanto appaia a un primo sguardo. E le accuse di essere un prodotto sorpassato, anacronistico o che si muove solo attraverso stereotipi non solo confondono banalità con classicità, ma trascurano anche il fatto che il western – genere scritto, riscritto, digerito e revisionato un’infinità di volte nel corso della storia del cinema – è intrinsecamente imbevuto di lirismo, non può trascendere da una certa forma mitologica (e mitopoietica) e si fonda su cliché narrativi ed enunciativi irrinunciabili. E piuttosto che chiedere a un’opera come questa maggiore inclusività, originalità o la vicinanza a temi “caldi” del nostro presente (quelli necessari per andare agli Oscar tanto per intenderci) che Horizon trascura invece quasi del tutto, l’attenzione andrebbe posta su come un racconto così complesso riesca a portare dentro di sé anche le contraddizioni e i conflitti che lo animano. E di come l’afflato fordiano che Costner riesce a infondere alle immagini stia soprattutto dentro la forza carsica di un racconto che pur procedendo dolce e per certi versi prevedibile per oltre tre (sei, dodici) ore, nasconde una vena d’inquietudine capace di emergere a ogni sequenza. Una formula di racconto che non si impara imitando o improvvisando, ma come dimostra la carriera del regista, è figlia di un’educazione (e devozione) al genere che viene da lontano. Ed è fatta della sostanza più pura del cinema, non soltanto di quello classico.