Dopo Sex, presentato nella sezione Panorama alla Berlinale, il regista norvegese Dag Johan Haugerud arriva in concorso a Venezia con Love (Kjærlighet), il secondo capitolo della sua trilogia ispirata ai tre colori di Kieślowski.
Marianne (Andrea Bræin Hovig) è un’urologa che affronta ogni giorno la relazione con i pazienti ai quali, per lo più, deve annunciare che hanno un cancro alla prostata e quali saranno gli effetti, non tanto della malattia quanto piuttosto delle terapie, sul loro corpo e come potrebbero condizionare le loro vite. Marianne è sempre calma, serena, rassicurante, seduta di fronte ai pazienti mentre l’infermiere Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) vigila dal fondo della sala con discrezione.
Inizia proprio così Love e così procede tematizzando - anche attraverso la professione dei due protagonisti e delle altre persone con cui interagiscono (un geologo, una operatrice culturale, uno psicologo, un carpentiere) - la confidenza che si ha con il proprio corpo e, di riflesso, con la sessualità e il desiderio. Marianne e Tor non sono amici ma quando si ritrovano sul traghetto che li trasporta su un fiordo vicino Oslo si scoprono capaci di parlare con inusitata franchezza del loro personale modo di intendere la relazione sessuale. Quella breve traversata diventa per il regista l’espediente per creare una sorta di spazio e di tempo sospesi dove i personaggi, non solo Tor e Marianne, ma anche gli altri che li incrociano, sembrano trovare la sincerità per guardarsi dentro e aprirsi con se stessi prima che con gli altri.
Un film molto intelligente Love, estremamente cerebrale, forse fin troppo trattenuto dal continuo intellettualizzare il sesso e il piacere ma anche più in generale il bisogno che abbiamo degli altri per desiderare e dunque per vivere. Non c’è praticamente mai azione ma un continuo muoversi dei personaggi da Oslo al fiordo come se solo nel tragitto e nel movimento si trovasse il modo - vedi il coraggio - di interrogarsi per davvero osservando la città da una parte (con la sua forma accogliente e la sua composizione geologica stratificata e complessa) e la semplicità del fiordo dall’altra, un po’ rifugio e un po’ trappola. In quella traversata l’idea del corpo diventa come un paesaggio e viceversa, avvicinando in maniera naturale ed essenziale l’idea della conoscenza e dell’esplorazione a quella del piacere.
Un trionfo assoluto del pensiero e della parola che mette curiosamente in comunicazione il film con Trois amies di Mouret. Ma se là erano le emozioni e il tentativo di agire anche lasciandosi stupire da queste a guidare i personaggi, qui è la speculazione intellettuale a tenere tutto il film e prendere per mano i personaggi e lo spettatore insieme a loro. Se Mouret affida al tragico personaggio di Macaigne il ruolo di narratore-osservatore, qui è l’infermiere Tor a diventare il vero e proprio traghettatore. Più giovane degli altri - e forse anche e proprio per questo più risolto e più confidente sia rispetto alla sessualità che al desiderio - Tor diventa nel corso del film un care giver del corpo e della mente, gentile, diretto, trasparente, disponibile. Come se in fondo la chiave per trovare delle risposte potesse essere semplicemente la disponibilità alla conoscenza e alla condivisione. La predisposizione a pensarsi come un ambiente da vivere ed esplorare.