Concorso

Joker: Folie à deux di Todd Phillips

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Arthur Fleck è rinchiuso nel manicomio criminale di Arkham. Niente più sorrisi da Joker, sebbene le guardie carcerarie, per una celia che somiglia a un’ossessione, non facciano altro che chiedergli una barzelletta, forse per esorcizzare, se non per cancellare, la sua lontana pericolosità. Fleck ha forse abdicato al suo ruolo: sempre più emaciato, sempre più ossuto, non pensa ai crimini che ha commesso, asciugato ormai dal suo presente di vessazioni. Dov’è finito Joker, la maschera indossata dall’assassino Fleck capace di risvegliare le masse fino a farle esplodere in una rivolta dal sapore di Capitol Hill? Fleck è una larva, sballottata controvoglia nei corridoi di una fetida prigione, accompagnata, quasi per assecondare uno scherzo atroce, nell’aula di una lezione riparatrice di canto, dove però incontrerà il suo doppio.

Joker: Folie à deux rigenera il protagonista del film primigenio ostentando una deriva da sequel impossibile. Se l’originale Joker si imponeva di riscrivere le regole di ingaggio del film di supereroi immergendosi nel vivido realismo del cinema americano anni Settanta, ibridando – in un’operazione osannata che però odorava di laboratorio – l’immaginario dei fumetti DC con l’estetica dello Scorsese di Taxi Driver e di Re per una notte, questo sequel si impone strade più impervie, quasi radicali. Lo spaesamento rimane la principale regola di ingaggio: Joker trasformava il film di supereroi piegandolo all’estetica di un cinema (un tempo) avanguardista; Joker: Folie à deux mescola i generi più disparati per provare a farsi distillato, a generare un derivato impossibile.

Joker – forse sopravvalutato nella sua ordalia di premi e consensi – indicava una strada diversa per il cinecomic, teneva tra i suoi corollari la sua ipotetica non riproducibilità. Ontologicamente Joker non ipotizzava seguiti, si ostentava conchiuso. Nell’accettare – nel piegarsi? – alle regole già scritte dei blockbuster hollywoodiani, Todd Phillips sceglie di costruire un seguito rimescolando le carte, al limite del gioco di prestigio. E nel realizzare un sequel impensabile, spariglia con coraggio.

Joker: Folie à deux è infatti una deviazione, un brivido parallelo, quasi una negazione del modello originale. È come se la voracità derivativa si fosse canalizzata in un’ansia da prestazione sempre più inafferrabile. Come rinfrescare la vivacità funerea di Fleck/Joker (a cui Phoenix regala la sua difformità ormai quasi museale), il suo pericoloso istinto ribelle, la sua valenza simbolica? Chiuso nelle gabbie di Arkham, il suo potere comunicativo appare marginale, lui stesso si è fatto spegnere. Basta un contatto visivo – quell’eye contact sempre decisivo in ogni sentimentalismo del mainstream – con una creatura fatta della sua stessa pasta per far ricominciare il delirio, e quindi il gioco. In un’improbabile classe di canto, stretta nei corridoi del carcere, Fleck intravede Lee/Harkey Quinn (una Lady Gaga capace di impossessarsi dello schermo a ogni singola inquadratura), in cui trova, in una specie di caleidoscopio psicotico, il doppio del suo doppio. Ognuno di loro nasconde un passato da rimuovere, ognuno di loro ha una personalità – per quanto doppia – da poter esprimere. Phillips non si limita più a declinare il superhero movie – per quanto nella variante “cattivi” – attraverso canoni (fintamente?) provocatori.

Nel primo Joker il fascino, fin troppo costruito a tavolino, passava per un reenactment furbetto dell’immaginario noir di un cinema americano riconoscibile e mai passato di moda. In questo abbozzo di sequel – più imperfetto ma più spericolato del modello originale – sceglie di rilanciare a rischio di autosabotaggio. Sceglie di costruire uno specchio al personaggio di Joaquin Phoenix (sempre più Fleck, sempre meno Joker) e lo fa costruendo un ulteriore ipotesi di riflesso interiore. Lady Gaga è una versione sghemba dell’Harley Quinn che abbiamo sempre immaginato: deformazione di una deformazione, anche lei frutto forse di una deriva psicotica del protagonista. E lo stesso trattamento che riserva ai personaggi, Phillips lo espone smaccatamente per la struttura narrativa: Joker: Folie à deux è un film-fumetto (nobilitato anche da un’introduzione, anch’essa falsamente mimetica, in stile cartoon anni ’50 firmata da Sylvain Chomet) che si trasforma in un prison movie che si trasforma in un processuale (spiazzando lo spettatore, piegandolo, anche annoiandolo). E infine assumendo su di sé, come una maschera (un’ennesima maschera) derivativa, la forma del musical. Un musical che guarda al passato (a Bacharach, a Fred Astaire in Spettacolo di varietà di Vincent Minnelli) per mettere “in abisso” il proprio immaginario.

Insomma, Joker: Folie à deux è la cronaca di un fallimento annunciato; l’ipotesi di un seguito impossibile di un successo planetario; un coraggioso atto di forza destinato allo scherno ma che contiene in sé un obiettivo folle nella sua tenera non-concretezza: il riflettere sul come e sul perché la semplice riproposizione di concetti sempre uguali possa (debba?) essere messa in discussione nell’epoca dei blockbuster intesi solo nel loro ruolo di “riproducibilità tecnica”. E questa, al di là dei meriti e dei demeriti del film, della sopravvalutazione (forse anche della presunzione) di Phillips e del case study del primo Joker, rimane una questione da cui non si può evadere con facilità, come dalla prigione di Arkham.