Si possono muovere molte critiche alla recente campagna per il turismo promossa dal Ministero competente (guidato da Daniela Santanché) e ideata dallo Studio Armando Testa, a partire da quel claim, “Open to Meraviglia”, che evoca i maldestri tentativi di un italiano medio in vacanza all’estero mentre tenta di ordinare, con entusiasmo, una pizza (perché ha nostalgia di casa) o saltare la fila di ingresso a un museo. È, anzi, fin troppo facile: anche senza aver fatto – come ho fatto io per molti anni – l’analista di campagne pubblicitarie, gli errori sono così tanti ed evidenti che, come di fronte alle dichiarazioni di La Russa (nessuna esclusa), sembra quasi superfluo approfondire, un’inutile perdita di tempo e di energie. A volte la bruttezza e la stupidità non hanno neppure bisogno di essere additate, tanto sono manifeste. E poi, per fortuna, c’è la Rete, che non perdona mai, e a volte ha ragione a non farlo: c’è chi ha scovato la foto ShutterStock (!) usata per vestire la Venere di Jeans (ma probabilmente tutta la collezione viene da lì…), e chi sta diffondendo meravigliosi (questi sì) meme – almeno, alla fine di tutto (fine però lontana, perché a quanto pare questa Venere ce la porteremo a lungo…), ci saremo divertiti, anche se questo non può bastare a scacciare il pensiero che la campagna è costata ai contribuenti, cioè a tutti noi, 9 milioni di euro.
Comunque, di fronte a “Open to Meraviglia”, ci sono due cose che mi colpiscono in modo particolare, e che possono spiegare, in modo meno superficiale, perché non funziona, e sarebbe il caso di sospenderla.
Primo. Dal punto di vista visuale – cromatico, plastico, compositivo –, le immagini della campagna sono il risultato di un impiego bulimico – anzi, incontrollato – di post-produzione (filtri, effetti, correzioni ecc.), che conduce a rappresentazioni fuori dal Tempo, dalla realtà e dall’esperienza – come nella Venezia che è, al tempo stesso, diurna e notturna –, e fuori dallo Spazio, per la deformazione prospettica e la torsione compositiva cui sono sottoposti gli elementi “caratteristici” che compongono l’immagine. Quella Piazza San Marco, quel Colosseo, quella Polignano a Mare non esistono, se non in quanto immagini, e in quanto immagini del tutto sganciate dalla realtà: post-prodotte, appunto, con buona pace delle cose che sono lì fuori – la vera Piazza San Marco, il vero Colosseo, la vera Polignano a Mare, con la loro luce (che cambia dal giorno alla notte) e le loro vedute da conquistare. L’inciampo è fatale: anziché magnificare l’Italia, i suoi luoghi nobili e notevoli, le cartoline iperrealiste, piatte e smaltate della campagna pubblicitaria, traducendo grossolanamente l’idea di meraviglia come “cosa di straordinaria bellezza”, promuovono un’esperienza superficiale, un turismo digitale, uno sguardo disumano, puramente tecnologico (nessun punto di vista sulle cose, tra le cose). Sono immagini tombali, fredde, lisergiche; sono, più semplicemente, immagini false, proprio nel senso di prive di verità.
Secondo. Accanto a una spettacolarizzante rimozione di qualsiasi traccia di realismo, con l’Italia compressa e serializzata secondo una logica iconica e maiuscola che confonde meraviglia con eccesso, bellezza con frastuono (di luci, colori, riflessi, sfumature), la campagna consegna alle bellezze italiane anche una patina vagamente post-apocalittica, soprattutto per via della totale assenza dell’elemento umano (anzi, antropico). Tolta quella specie di inquietante cyborg – metà immagine, metà donna – della Venere botticelliana (cyborg di prima generazione, però, anni Ottanta, rigida come una Barbie e inespressiva come Terminator, che non riusciva a ridere), “Open to Meraviglia” rafforza il luogo comune di un Paese fuori dal Tempo inciampando, questa volta, in un’infelice applicazione dell’idea di meraviglia come “cosa inaspettata e rara”, di stampo favolistico: Roma, Venezia, Polignano a Mare ecc. appaiono come luoghi remoti e disabitati, rovine e monumenti fermi nell’immaginario, sogni e incanti d’altri tempi. È, questa, un’idea (anzi, un concept, direbbero i creativi dello studio Armando Testa) vecchia, infantile, a buon mercato, da ottocentesco Bel Paese, figlia, anche, di un modo di pensare la “meraviglia” dell’Italia come grand tour tra oggetti e immagini da collezionare e gli italiani come un popolo di invisibili custodi (e venditori non sempre onestissimi) di questa meraviglia. Le immagini della campagna sono senza storia, oltre che senza vita. Non respirano, non si muovono, non esistono. Oltre che false, sono illusorie.
Il paradosso è evidente. Mentre la Venere botticelliana, un’immagine, esce da un dipinto e prende vita (si muove rigida, mangia la pizza dando le spalle al mare, si veste male e va in bicicletta per Roma, povera lei), l’Italia – le sue città e i suoi monumenti, quelli che tutti già conoscono – viene ridipinta, compressa, filtrata, desertificata per diventare una bella immagine, immagine pura, forma e formato perfettamente misurati per Instagram o Facebook (Venere, del resto, è un’influencer). Ma, a questo punto, che senso ha venire in Italia per davvero, realmente? In fondo, non c’è più niente da vedere, e di cui meravigliarsi: basta aprire (“Open”) un social a caso.