Malatempora

columns top image
Malatempora

L'Oscar dei Giusti

La proposta di “new inclusion standards”, sia davanti sia dietro la macchina da presa, era stata annunciata dall’Academy in giugno, e un mese dopo, per l’esattezza martedì scorso, la più importate organizzazione del cinema statunitense (quella che attribuisce gli Oscar) ha fatto chiarezza. A partire dal 2024, per poter ambire alla statuetta di miglior film, sarà necessario: che almeno uno degli attori protagonisti o degli attori in un ruolo secondario ma “significativo” appartenga a un gruppo etnico o razziale sottorappresentato (asiatici, ispanici, afroamericani, nativi americani, nordafricani, hawaiani, mediorientali); oppure: che il 30% degli attori in ruoli secondari o minori appartenga a una delle seguenti categorie: gruppo etnico o razziale sottorappresentato, donne, comunità LGBTQ, portatori di disabilità fisiche o cognitive; oppure: che la storia principale ruoti attorno a un personaggio appartenente a un gruppo etnico o razziale sottorappresentato; inoltre: per ciascun film, deve essere significativamente aumentato (mancano percentuali esatte) il numero dei lavoratori donne o appartenenti a un gruppo etnico o razziale sottorappresentato, e devono essere fornite a entrambe la categorie occasioni di apprendistato e opportunità di formazione; oppure: occorre assumere, per la lavorazione del film, uno o più senior executive appartenenti ai due sopraccitati gruppi. Manca qualcosa, ma il succo è questo.

Come tutte le decisioni ideologiche, e maturate a partire da una situazione contingente – quella degli Stati Uniti di Donald Trump, nei quali le linee di demarcazione sociale, economica, razziale sono state ridisegnate a tratto nero e spesso – questa dell’Academy suona per metà grottesca, per metà fallimentare.

Lo svolgimento del tema potrebbe prendere molte strade diverse:

1) è una decisione che interpreta il concetto di inclusione come forzatura burocratica, anziché come processo storico e culturale (ne certifica involontariamente l’esaurimento);

2) è una concessione essenzialmente patriarcale, bianca, sessista, maschilista, razzista nei confronti dell’Altro, accolto in quanto minoranza e proprio per questo destinato a essere perpetuamente rappresentato in quanto minoranza (detto altrimenti: è un modo tipicamente statunitense, cioè condiscendente, di fermare qualsiasi reale processo di conquista e/o trasformazione);

3) è una scelta che fa collassare l’Arte sull’Ideologia, e di questi collassi l’Europa ne ha conosciuti un paio, recenti, non proprio felicissimi;

4) è una soluzione che somiglia a una stallo alla messicana: come ha osservato giustamente Paolo Mereghetti, darà molto lavoro ai moltissimi avvocati americani, perché come ogni disciplinare che tratta le persone come quote, e che gioca a Risiko con la storia e l’identità, si consegna inevitabilmente alla recriminazione (che è delle persone, non dei numeri);

5) è un’ipotesi di distribuzione della rappresentatività che mira, per quanto maldestramente, a chiudere la bocca a tutti, silenziando, non risolvendo o pacificando, il più sano, vitale principio della democrazia occidentale: la protesta;

6) è una disposizione che rovescia il più elementare principio della creatività: che non è quello di non darsi regole (di qualunque tipo esse siano), ma di poter scegliere liberamente se giocare, oppure no, secondo le regole (di partito, movimento artistico, regime, filosofia ecc.).

Da quest’ultimo punto di vista – che è quello che mi interessa di più – la decisione dell’Academy è davvero ideologicamente disturbante: quella proposta, infatti, non è, semplicemente, la ricetta per il film da Oscar (per il miglior film americano dell’anno), ma, trattandosi degli Oscar, è di fatto la ricetta per il Film Americano, che d’ora in poi dovrà essere Inclusivo, Giusto, Rispettoso, Politicamente Corretto.

L’avvitamento politico-culturale è sottile ma evidente: l’Academy sta imponendo a Hollywood la categoria del film da produrre, e non soltanto per vincere il più importante riconoscimento che l’industria del cinema americano dà a se stesso da quasi un centinaio di anni. Con l’inevitabile effetto, che sempre s’accompagna a qualsiasi tipo di rigorismo moralista, di generare immoralità.

Perché quando un’istituzione come l’Academy suggerisce che per vincere la statuetta per il miglior film occorre fare film migliori (dal punto di vista dell’inclusività razziale e di genere), sta di fatto inalberando una seconda categoria, quella dei film Iniqui, Sbagliati, Ingiusti, Irrispettosi. In gioco, del resto, non sono state poste regole estetiche o tecniche, ma identitarie. E per una società come quella americana, dominata da colpevoli (tendenzialmente maschi, bianchi, eterosessuali), vittime (quelle da includere e quindi da mantenere nella condizione di vittime) e giustizieri social (che non perdono occasione per allungare indiscriminatamente entrambi gli elenchi), d’ora in poi non fare il film da Oscar non significherà, semplicemente, scegliere un’altra strada ma, appunto, fare film colpevoli. E il senso di colpa, come spiega benissimo Bret Easton Ellis in Bianco (2019), è ormai l’unico vero pilastro psicologico e comportamentale della società americana.

Questo, almeno, a Hollywood e dintorni, che anche nel recente passato ha provato a espiare (malissimo) con operazioni come quella del #MeToo – l’Academy, da parte sua, ha premiato nel 2019 un film che già rispettava buona parte delle nuove regole di comportamento, Green Book, mentre è forse impazzita quest’anno consegnando una valanga di premi a Parasite.

Fortunatamente il cinema americano è fatto di tante altre cose: tutto un mondo, creativo e produttivo, che agli Oscar non pensa e non guarda; tutto un mondo di persone appartenenti a qualche tipo di minoranza che guarda con sospetto alla logica delle quote e alla retorica dell’inclusività e alla politica delle riserve indiane. Non voler vincere l’Oscar per il miglior film potrebbe diventare, a partire dal 2024, un gesto di orgogliosa protesta sociale.