Che cosa può mai spingere un’attricetta relativamente utile alla storia del cinema statunitense come Rebecca Hall (più nota per aver fatto fallire il matrimonio tra Kate Winslet e Sam Mendes che non per le sue interpretazioni) a rilasciare (l’altro ieri) una dichiarazione, via Instagram, nella quale si dice pentita di aver lavorato (un giorno) nel nuovo film di Woody Allen, A Rainy Day in New York? Molto semplice: la paura, forse il terrore. Di Woody Allen? No, ovvio – dovrebbe anzi ringraziarlo a vita per averle donato il suo primo ruolo significativo in Vicky Cristina Barcelona –, ma del Movimento, di “Time’s Up” (Dear Sisters…), al quale la Hall ha deciso di donare il salario di quell’unico giorno di riprese. Speriamo per lei che l’abiura e l’obolo possano bastare.
Lo statement di Rebecca Hall è del tutto ridicolo, pretestuoso e tardivo (la lettera al “New York Times” di Dylan Allen risale al 2014…), e più di ogni altra dichiarazione simile – da Woody Allen hanno recentemente preso le distante, tra gli altri, Greta Gerwig, Ellen Page e Griffin Newman, anch’egli in un piccolo ruolo in A Rainy Day in New York, che senza mezzi termini ha twittato: «I worked on Woody Allen’s next movie. I believe he is guilty. I donated my entire salary to RAINN» – svela che qualcosa sta cambiando, anzi forse è già definitivamente cambiato dopo che dal palco dei Golden Globe, mai come quest’anno cinematografici (nel senso di ben recitati), le giustissime richieste delle donne (ormai Il Movimento parla un po’ per tutte, non solo per le lavoratrici dello spettacolo) si sono presentate in forma di costosissimi abiti neri e hanno volentieri deviato – grazie ai potenti microfoni della società dello spettacolo – dalla rivendicazione alla minaccia (con programma di epurazione sullo sfondo), confondendo ancora una volta, com’è successo fin dall’inizio, troppe questioni, tutte insieme appassionatamente, tagliate via con l’accetta pesante di una visione del mondo stile blockbuster (e ti credo che The Shape of Water fa il pieno di premi). Non è dunque un caso che ai Golden Globe abbiano trionfato una serie Tv come Little Big Lies (solidarietà femminile, matriarcato e celebre scena di quasi-evirazione) e, soprattutto, un film squadrato come Tre manifesti a Ebbing, Missouri, dove ci sono donne forti e agguerrite e uomini deboli e sfatti ma, soprattutto, denunce scritte in grande lungo la strada (poi, le fiamme). Lettere nere su sfondo rosso, versione aggiornata e cartellonistica di altri e tristemente noti codici scarlatti.
Di tutto questo Movimento, in effetti, ciò che più sconcerta sono i modi della denuncia. Frettolosi, isterici, finalmente slegati da qualsiasi logica giuridica e processuale, autogestiti come in un pasticciato woman revenge movie, tutte vendicatrici solitarie (e qualche sparuto vendicatore) con armi a libera scelta e attribuzioni virali di colpe, con le grandi Figure del Novecento – la Memoria il Testimone il Trauma – imposte come verità assolute. E, non meno delle denunce, non può non sconcertare (guardando dalla vecchia Europa della Deneuve) la liberatoria e sconsiderata centrifuga semantica (con buona pace della pragmatica) di termini come sexual misconduct, sexual harassment, inappropriate behaviour, abuse, violence, inequality, injustice e qualcos’altro ancora. Ma queste streghe – queste spose in nero – sono un po’ troppo truccate per essere fino in fondo credibili, troppo una élite per poter davvero avviare qualche tipo di trasformazione rivoluzionaria; come hanno intuito benissimo l’agente e il pubblicitario di Rebecca Hall (probabili ispiratori del messaggio), la posta in gioco è, a conti fatti (in dollari, non in morale) un più lineare passaggio di potere: «I look forward to working with and being part of this positive movement towards change not just in Hollywood but hopefully everywhere».
L’America virile eteronormativa maschilista profonda che ha eletto Donald Trump non aveva certo gli strumenti intellettuali per capire che l’Uomo Forte al Potere può soltanto contribuire a distruggere il maschio. Lo ha invece capito benissimo Ryan Murphy, che nell’ultima stagione di American Horror Story sovrappone il killer dello Zodiaco (assassino di coppiette innamorate) e Valerie Solanas per tratteggiare la genealogia di una distopia gender in cui le donne contribuiscono ad alimentare il potere degli uomini per avviarlo così a un’inevitabile, fatale autodistruzione. Però Valerie Solanas (giusto cinquant’anni fa) ha sparato a Andy Warhol: e cioè, non a un uomo, ma a una sua frustrazione, a un suo desiderio di potere, a un suo malinteso tentativo di essere Andy Warhol. E nel suo manifesto SCUM – Society For Cutting Up Men – l’etichetta di feccia si riferisce tanto agli uomini quanto alle donne (“Daddy’s Girl”) non dominatrici, non violente, non assetate di potere, non intransigenti, non indecenti.
Ma al di là del femminismo malato e punitivo di Solanas (al di là di qualsiasi femminismo, a dire il vero), il salto più o meno triplo (ma con ingresso pulito in qualche piscina di Hollywood) della fantasia di Murphy tocca un punto reale ed essenziale dell’evoluzione tendente al nero (e destinata probabilmente a scurirsi) del Movimento e delle sue spose: la riproduzione, al femminile, di una logica (tipicamente contemporanea, tipicamente statunitense, tipicamente maschile) della paura (confusa per rispetto), se non proprio del terrore. Di una paura virale, atmosferica, da contatto, perfetto contraltare di una società che nella cultura del rehab, della cura, della riabilitazione, ha saputo condensare integralismo religioso, puritanesimo, individualismo e centralità del corpo. Paura di finire su qualche manifesto a fondo rosso, nome e cognome, accuse circostanziate (e non necessariamente verificate e fondate), o in uno dei tanti indici diffamatori che sfuggono quotidianamente di mano (almeno sembrerebbe) al Movimento: si veda, a proposito di Golden Globe, un contributo al limite del linciaggio come questo o la persecuzione alla quale è attualmente sottoposto il povero Timothée Chalamet, protagonista principale di A Rainy Day in New York (per ora, a chi nelle ultime 48 ore gli ha chiesto conto – e tra questi nientemeno che Christiane Amanpour – se l’è cavata con un intelligente no comment: «It’s going to be important for me to talk about that, but Call Me by Your Name is a movie about consent and love and it’s depicted in such a beautiful way that I don’t want to let anything take away from that right now»).
Paura d’élite, paura dell’esclusione e del confino, della carriera fatta a pezzi nel giro di un cinguettio maligno o a causa di un ricordo tardivamente recuperato, paura piccola egoistica personale come sono tutte le paure, solo per dovere di tweet ammantata di slanci sororali. E allora che cosa può fare una come Rebecca Hall, una che conta poco, una faccia e un nome che nessuno ricorda e che probabilmente nessuno ricorderà mai? Sceglie, senza troppi indugi, di sparare a Woody Allen (il plotone d’esecuzione è ormai così nutrito da rendere la coscienza leggera, mentre l’alto numero dei tiratori corrobora il senso di giustizia nella totale assenza di processi e condanne) e di lavorare per il Movimento, e cioè, attualmente, il più importante e potente centro di riabilitazione della società statunitense, con buona pace delle rivendicazioni per la parità sessuale e il trattamento economico, per il rispetto della donna eccetera eccetera. Di abiti neri, del resto, Rebecca Hall ha pieno l’armadio. E la morte, mai come in questo caso, ti fa bella.