Frank “l’irlandese” Sheeran dipinge case. Ovvero, nel gergo mafioso, imbratta di sangue le pareti dove uccide le sue vittime. Frank è un killer taciturno, coscienzioso, che non fa troppe domande. Reduce della campagna d’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, Sheeran trasporta merci su un camion quando incontra Russell Bufalino, esponente di spicco di Cosa Nostra a Filadelfia, che lo prende sotto la sua ala protettrice. A Bufalino e al suo altro “padrino" Jimmy Hoffa, potentissimo boss del sindacato degli autotrasportatori, Sheeran deve la carriera in bilico tra attività pubblica e malavita privata. Uomo d’onore lontano dall’estetica del mafioso americano estroverso e rumoroso, volenteroso carnefice, placido, mite ed essenziale, Sheeran è prigioniero di un mondo senza via di uscita. Ed è lui, vecchio, a raccontarci la sua vicenda – spaccato oscuro di quarant’anni di vita americana: solo, abbandonato alla sua incapacità di provare rimorsi o rimpianti, convinto ormai che l’inconoscibile cammino della Storia lo abbia indirizzato al proprio destino che poteva essere quello e solamente quello.
Martin Scorsese, in The Irishman, torna a raccontare i gesti esemplari del mondo dei gangster mafiosi mettendo da parte l’epica ironica di Quei bravi ragazzi o la parabola di ambizione e caduta di Casinò (anche la voice over che accompagna il film è ben diversa: piana, quasi dimessa...) per rifugiarsi in una narrazione ridotta all’osso, intrisa di disincanto e dell’umore malinconico di chi, guardando indietro, vede solo una scia di sangue, lutti e perdite, un teatro degli orrori privo di ogni catartica grandeur. Anche la violenza, cifra segnante della sopraffazione di una società hobbesiana e implacabilmente maschile, è silenziata, secca, antispettacolare: rappresenta l’inevitabile via di fuga di un mondo dominato da regole di sopraffazione che nessuno osa mettere in discussione. In fondo il mondo di The Irishman è attraversato da piccoli uomini che si atteggiano a giganti, da marionette e da pupari, sempre sottomessi a un’abitudine che mescola devozione e tradimento altalenando alleanze e rivalità, finendo per soffocare la realtà degli affetti in un groviglio mortifero di regole e convenzioni.
Non c’è niente da scoprire o da capire in fondo: «non c’è niente da guardare», come solitamente si dice di fronte a un incidente stradale. Il linguaggio – in cui le frasi sono sentenze artefatte e convenzionali – è un codice che porta inevitabilmente alla soppressione: «bisogna fare qualcosa» significa uccidere. Soluzioni alternative non vengono contemplate. La reazione pavloviana a un qualsiasi sgarbo è uno sgarbo ancor maggiore, in un crescendo che conduce al cimitero. La parola predestina l’azione, che è sempre violenta, asettica, inespressiva. I personaggi secondari del film, comparse sempre sull’orlo del baratro, vengono presentati con scritte sovrimpresse che sono necrologi. La fine è comunque immanente, per quanto improvvisa. Si respira, in The Irishman, un costante odore di morte. La lealtà sarebbe il valore morale presupposto nel mondo degli uomini d’onore, ma il tradimento è la norma in cui si annegano le relazioni, in cui si narcotizzano i sentimenti.
Nel film non c’è alcuna enfasi romantica, siamo all’opposto del ridondante universo criminale del C’era una volta in America di Leone: i personaggi non sono mossi da emozioni incontrollabili, da passioni scomposte seppur violente. Sono dei lavoratori anaffettivi, automi convinti che legarsi a qualcosa o a qualcuno possa rappresentare un pericolo, un mettersi di fronte a quello specchio – la propria coscienza – che viene costantemente oscurato e dismesso. E così lo sguardo impassibile di Sheeran (Robert De Niro), la solennità liturgica di Bufalino (Joe Pesci) o l’egotismo sopra le righe di Hoffa (Al Pacino, che lavora di accumulo e poi cesella le sfumature) sono le tre facce monumentali di una rappresentazione funebre: una messa da requiem in cui gli esemplari percorsi dei tre protagonisti intrecciano la Storia americana in un verminaio di malaffare, malavita, corruzione, ricatto.
Il ringiovanimento digitale dei personaggi è a tratti improbabile ma perfettamente funzionale: scotenna il tempo e lo mette sotto scacco, costruendo una sorta di presente assoluto che è sempre sul punto di esalare l’ultimo respiro. L’andirivieni cronologico cristallizza in realtà il vero fulcro – il “nocciolo della questione” – del film: il momento che passa e non si può fermare, il passato che ci perseguita e non si può cambiare, l’innocenza che è morta e che non può tornare. Il tempo è un nemico che è dentro di noi e non si può sconfiggere con due colpi di pistola sparati senza un tremore. Il disincanto che azzera valori e morale è sottolineato da una regia mai gridata, che utilizza con convinzione il fuori campo, che si apre improvvisamente a inflessioni di suspense hitchcockiana, a gridati momenti di nerissima ironia, per poi ripiegarsi con cupissima grazia nel fatalismo che non ammette redenzioni. C’è sempre un prezzo da pagare che non lascia spazio a rimorsi o rimpianti: la colpa è un fatto congenito, non lascia tracce se non quelle diluite in una memoria criminale che rende attoniti e rassegnati.
The Irishman è un gigantesco, colossale, sepolcrale finale di partita. Una fluviale narrazione punteggiata da matrimoni e battesimi girati al ralenti, messi in scena come momenti onirici e allucinati, ma che si rivela un funerale interminabile in cui ci si incrocia in attesa del proprio turno. Una seduta spiritica in cui i pochi sopravvissuti sono ombre, uomini-fantasma prigionieri del loro passato.
«It is what it is» – «è quello che è» – ripete come un mantra Bufalino al devoto e dubbioso Sheeran nella convinzione che quei codici animaleschi e brutali di violenza e sopraffazione, gli unici che conoscono, siano gli ingranaggi immutabili che fanno girare il mondo, seppur nella direzione sbagliata. Una nerissima constatazione di fatalismo e meravigliata disperazione che richiama alla memoria il «This is all we are» – «questo è quel (poco) che siamo» – sussurrato con sgomento dal chirurgo Thackery di fronte alla propria morte e alla debole finitezza che ci attanaglia nel finale della serie The Knick di Steven Soderbergh, altra cupa parabola sull’inestirpabile vocazione al sopruso insito nell’anima americana, sulla pulsione di morte che pervade un mondo ormai in decomposizione.
Martin Scorsese firma un'epica saga sulla criminalità organizzata negli USA del dopoguerra vista dagli occhi di un sicario.