Comincia in una casa di riposo, The Irishman, e non è esattamente quello che ti aspetti da un film sulla malavita. Ma è un inizio perfetto, perché Scorsese – dopo avere utilizzato il crimine organizzato per parlare delle incandescenze della giovinezza in Quei bravi ragazzi e delle ambizioni della vita adulta in Casinò – guarda ora a quel mondo dalla prospettiva della vecchiaia, segnata dagli acciacchi e dal suo deposito ingombrante di ricordi, rimpianti e rimorsi.
Considerato che il gangster-movie è probabilmente il più adrenalinico di tutti i generi hollywoodiani, segnato sin dagli albori da interpretazioni di contagiosa energia (basti pensare a James Cagney), quella di sintonizzare un film malavitoso sulla lunghezza d’onda dell’anzianità, è una scelta quasi incosciente, in evidente controtendenza rispetto alla natura stessa del genere. Se la poteva permettere solo Scorsese, che della malavita italo-americana – dei suoi riti pacchiani e sgargianti, dei suoi modi smargiassi e chiassosi, delle sue pulsioni carnali e carnivore – ha fondato la mitologia su grande schermo.
È venuto però il momento, questo ci dice The Irishman, di smontare questa mitologia, rivedendola dalla prospettiva della sua obsolescenza, osservandola con malinconica retrospezione. Come bene ha scritto un critico americano, questo film sta a Scorsese come L’uomo che uccise Liberty Valance sta a John Ford: quando viene il momento di chiudere un’epopea, di inchiodare la bara su un repertorio di figure ed eventi, è giusto che a farlo sia il suo massimo creatore ed artefice.
È per questo che The Irishman non racconta, rispetto ai precedenti film di Scorsese sull’argomento, nulla di nuovo. Stessa prospettiva laterale – il protagonista non è un uomo di rilievo (e nemmeno un italoamericano) ma una figura qualunque al soldo della malavita – stessa complessa orchestrazione di comunità criminali raccontate con gusto antropologico del dettaglio, stessa impalcatura drammaturgica fondata sui temi dell’orgoglio, della vendetta e del tradimento. A cambiare sono il passo, il ritmo narrativo, lento e faticoso come l’incedere di un vecchio, e lo sguardo, quello di un anziano ora finalmente consapevole della futilità e dell’insensatezza di tutti quegli spargimenti di sangue. Cattolico di formazione, Scorsese non si esime mai dal raccontare, dopo la caduta nel peccato, il tormento del castigo.
In Quei bravi ragazzi la punizione arrivava dalla legge e in Casinò dalla malavita, qui invece il protagonista è, più crudelmente, lasciato a sé stesso, condannato a rimuginare senza requie su un passato cui non può più porre rimedio. Il castigo è allora il senso di colpa, il pensiero di avere sempre ubbidito a tutti, tranne che alla propria coscienza. Pensiero insostenibile, come insostenibile, nella sua atroce bellezza, è l’ultima mezz’ora del film, dove la casa di riposo diventa un girone dell’inferno, e la dannazione coincide con la solitudine e l’idea di avere sprecato, oltre che fatto, il proprio tempo.
Per dirla con Riccardo II (entrambi, Shakespeare e Scorsese, grandi narratori dei giochi di potere e tradimento), «I wasted time, and now doth time waste me»: ho sciupato il mio tempo, e ora il tempo sciupa me.
Martin Scorsese firma un'epica saga sulla criminalità organizzata negli USA del dopoguerra vista dagli occhi di un sicario.