Nel riascoltare, commossi, Telefonami tra vent'anni di Lucio Dalla, viene da pensare che il titolo Il nome del figlio sia stato ispirato da un'altra canzone del compianto cantautore bolognese: Futura. Considerazione, questa, fomentata da un nesso comune tra i due brani, come dall'identico immaginario (e dall'identico percorso artistico) che il buon Lucio malinconicamente fotografava nei rispettivi versi.
Il nome del figlio è l'escamotage narrativo con cui l'autrice de Il grande cocomero sceglie di radiografare una cena tra due coppie di amici, cui si aggiunge un quinto, compagno di ricordi. L'espediente innesca una concatenazione di discussioni e liti, incomprensioni e battibecchi, frecciatine e voltafaccia, entro un quadro di quarantenni in crisi. Siamo, si è capito, nell'ennesimo “grande freddo”, non indotto dalla morte di un compagno di studi, bensì allietato da un'imminente nascita che è contemporaneamente sorpresa per i personaggi e per lo spettatore. L'indecisione sul nome è il deus ex machina per una meglio gioventù (ma quanto?) indotta a un rancido ripensamento, come comprova la presenza di Luigi Lo Cascio, ancora una volta nei panni di un professorino.
Se il brano di Dalla è quello che i cinque protagonisti riascoltano, danzano e reinterpretano, esorcizzando un momento di tensione, la mente torna a un'altra commedia da camera, Breakfast Club di John Hughes: il parallelo non è così ardito, trattandosi di una pellicola al cui centro stava un campionario di volti e caratteri divergenti ma non troppo, accomunati da un immaginario assuefatto alla modernità, prossimo all'apatia e a un progressivo oblio. I personaggi de Il nome del figlio sono il capitale umano di un Duemila sparuto e disarmato, dove il confronto e il dialogo sono ostacolati da twitter, dai social network, dagli smartphone. Ed è grazie a uno di questi, racchiuso in un modellino a forma di elicottero, che i figlioletti di una delle due coppie scrutano la serata tra adulti: i figli ci guardano.
Un big chill testimoniato dalla ricorrente presenza di flashback che mostrano la discrepanza tra il Prima (la giovinezza, le spensieratezze) e il Poi (quello cui si assiste). Quasi lo spettatore assistesse a un come eravamo mescolato a una casa dalle finestre che piangono in stile Pupi Avati. E se di quest'ultimo, in tema di pellicole da camera, verrebbe da menzionare anche Regalo di Natale (e il suo sequel-remake), occorre dire che Il nome del figlio non ne ripropone il piglio, tantomeno il vetriolo. Forse nemmeno la cattiveria del prototipo, la commedia Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte. Assodato che la causticità dei testi francesi non sempre si ritrova nelle loro trasposizioni, statunitensi o italiane, la corrosività con cui la regista romana e lo sceneggiatore Francesco Piccolo descrivono questi orfani degli anni Settanta-Ottanta risulta priva di autentica mordacità o di quella zampata à la Risi che fa la riuscita delle opere di Paolo Virzì.
Il nome del figlio si riduce a un compitino dignitoso, ben confezionato, per certi versi simile a un format televisivo, come suggerisce anche la prova di alcuni interpreti. Francesca Archibugi non sembra possedere la giusta dose di cattiveria - per risollevare l'insieme ci vorrebbe il pepe di una Festa per il compleanno del caro amico Harold (Friedkin) - non per niente è suo agio soprattutto nelle parentesi delicate, intimiste. E il colpo d'ala conclusivo, che riconduce la narrazione su un registro edificante, piace pensarlo come a una nuova questione di cuore.
Potrebbe essere la solita cena allegra tra amici che si frequentano e si sfottono da quando erano bambini, e invece una domanda semplice sul nome del figlio che Paolo e Simona stanno per avere induce a una discussione che porterà a sconvolgere una serata serena.