La madre, non la mamma, o per lo meno non all’inizio del viaggio. La madre come appiglio dell’identità, come origine della vita, soprattutto origine del linguaggio che dà un senso al mondo, che lo ferma e lo regola. La madre come grande tema dell’arte contemporanea.
C’è un libro uscito da qualche mese, Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart, in cui lo scrittore racconta la sua storia di immigrato russo in terra americana, e soprattutto di figlio mammone e cagionevole, alla fine del quale compaiono in quattro grafie differenti le parole conclusive di una preghiera ebraica: ואמרו אמןו, «Ve’imru Amen», «Diciamo, Amen», «И CKAЖE: AMEH». Parole senza senso, scrive Shteyngart, parole che si sa leggere ma non capire, attraverso le quali però stabilire un legame di gesti e suoni con i propri genitori, la cui foto in bella posa, con la madre a sinistra e il padre a destra, compare come ultima traccia del libro. Un appiglio, dunque, meglio un approdo, la speranza che perduri per sempre l’invocazione di una canzoncina sovietica ripetuta di continuo dal fallimento ancora bambino: «Che ci sia sempre il sole, che ci siano sempre cieli blu, che ci sia sempre la mamma, che ci sia sempre io».
C’è poi un album uscito da pochi giorni, Carrie & Loell di Sufjan Stevens, che come Mia madre di Moretti è costruito sul ricordo di una madre da poco scomparsa, la Carrie del titolo, donna bipolare, alcolizzata, colpevole di aver abbandonato i figli ancora bambini. I primi versi dell’album rivelano il senso complessivo del lavoro, e sono bellissimi e impossibili: «Spirit of my silence I can hear you / but I’m afraid to be near you / and I don’t kwow where to begin / and I don’t kwow where to begin…». Sufjan Stevens racchiude nell’ossimoro di un silenzio che ha voce una privazione che è pace dei pensieri, una dimensione desiderata e al tempo stesso allontanata, da combattere e al tempo stesso richiamare con una parola che dia una senso al dolore, alla morte, alla realtà stessa.
Forse è proprio questo che Moretti ha cercato in Mia madre, attraverso il personaggio che interpreta, Giovanni, il fratello della protagonista Margherita, regista ovviamente suo doppio: il silenzio, il silenzio della vicinanza all’altro, una pura e semplice presenza che prevede e anticipa bisogni e desideri. È lui, Giovanni, colui che sta a lato del film, «l’attore accanto al personaggio» come suggerisce di continuo Margherita ai suoi interpreti, senza che nessuno sappia bene cosa intenda; è lui che è sempre un passo prima della sorella al capezzale della madre, volto nella folla pronto a emergere per starle alle spalle, per accudirla. Un angelo, insomma, che come le figure alate di Wenders citate nel film, finisce per scivolare anch’egli preda di dubbi e paure, umano come gli altri, compromettendo in parte la purezza della sua figura ma testimoniando la tensione contraddittoria e fertile da cui prende vita Mia madre.
Sulla scena del film tutto si incrocia e si equilibra: il sogno, la realtà, il passato, il presente, la vita, il set. Ma il cinema, questo cinema di Moretti, onirico e soggettivo, sembra non farcela più a ricondurre il reale a un principio di logica e coerenza, di rigore e controllo. Moretti ne sente la fragilità, la affronta con onestà e coraggio, mettendo in scena momenti labili eppure bellissimi (il sogno per le strade di Roma, con la gente in fila per vedere Il cielo sopra Berlino e Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen; i bellissimi frammenti in cui Margherita si vede da giovane), inseguendo una continuità di discorso ed emozione tanto toccante quanto purtroppo vana. La semplicità del suo stile, la costante depurazione di legami logici affidati semplicemente al montaggio, porta Moretti a inseguire nel cinema quello che nel Regno Emmanuel Carrère chiama, citando Baudelaire, lo «stile fluido, caro ai borghesi», la capacità cioè di collegare sempre ogni cosa, di fare attenzione che il discorso fili liscio e senza intoppi.
Mia madre insegue questa fluidità, la trova e la afferma con convinzione: ma al tempo stesso ne patisce la debolezza, trovando invece l’essenzialità di sguardo e di spirito evocata nelle intenzioni soprattutto in dialoghi, gesti e corpi singoli, che valgono cioè per se stessi, momenti di cinema puro e intensissimo che bloccano il tempo e la continuità. Come il gesto della mano di Turturro che accarezza Margherita dopo la straziante confessione sulla solitudine dei libri di latino una volta scomparsa la madre; o come il pianto sotto le coperte della figlia di Margherita alla notizia della morte della nonna.
Dopo aver parlato per anni di se stesso come punto di partenza per l’incontro con l’altro; dopo, soprattutto, aver trovato nel corpo dell’altro, da Aprile a La stanza del figlio a Il caimano e Habemus Papam, la proiezione di paure naturali e inevitabili, con Mia madre Moretti si arrende alla complessità semantica del reale e alla umanissima impotenza di qualsiasi tentativo logico di comprenderlo e interpretarlo. Solo l’attenzione che ha per le singole parole, per le battute minime e per i singoli piani gli consente di trovare un appiglio, un sostengo; l’equivalente cinematografico delle parole stampate di Shteyngart o della luce che colpisce attraverso un vetro la figura fittizia di Sufjan Stevens («I see the signal searchlight strike me in the window of my room…»), materia minima ma concreta da cui partire per ridefinire il mondo, per fermare l’inondazione, per riportare tutto «back to reality», come urla in un momento di rabbia l’attore americano interpretato da Turturro.
Per Moretti il cinema resta l’unica forma da opporre alla paura del silenzio, e inevitabilmente lo vive come una salvezza che si fa condanna (condanna a girare altri film, a discutere con gli attori e con la troupe, a gestire relazione e affetti che richiedono attenzione), trovando nella figura della madre un simbolo che è origine e sentimento della fine: « I forgive you, mother, I can hear you», canta ancora Stevens, «And I long to be near you / But every road leads to an end / Yes, every road leads to an end»…
La rabbia del figlio ferito dalla morte della madre in La messa è finita, si è fatta perciò accettazione sconsolata eppure fervida di un rumore di fondo che non solo richiama continuamente alle proprie responsabilità («Margherita, noi siamo pronti», dice infinite volte l’aiuto regista), ma si esprime attraverso la voce depurata, semplice eppure pregnante, troppo scritta ed evidente, del film stesso, per il momento ancora legato al ricatto continuo dell’immagine simbolica, della metafora visiva che comprende il racconto e lo sintetizza.
La ricerca di una semplicità di sguardo, di un’assenza di retorica, di una logica di pensiero chiara ed essenziale (la grammatica della lingua, la nettezza dei legami del periodo invocati dalla madre), che è ciò che Margherita non trova sul suo set, è forse la stessa che manca a Mia madre, al quale sarebbe bastato un passo indietro rispetto alla chiarezza della trama onirica, un po’ più di coraggio nel nascondere invece di mostrare, nel sospendere invece di chiudere, per essere non solo commovente e toccante, ma anche esatto, certo di una bellezza che nasce dalle immagini e dai corpi che le abitano, dalla consapevolezza della morte come presenza dolce e compassionevole (che è ciò che rende meraviglioso l’ultimo Heimat di Reitz, dove la madre è «rassicurazione» per il figlio e non muore mai, sempre in bilico fra vita e oblio…).
Moretti non ha la purezza grave di Bergman, e nemmeno la straziante, misteriosa malinconia del Woody Allen di Un'altra donna, modelli a cui Mia madre guarda in modo naturale, senza complessi. Eppure sa di sfiorarle, sa di dover continuare a cercarle.
Pensando all’ultima scena del suo film, quando gli alunni della madre di Margherita e Giovanni vengono a rendere omaggio alla salma, e parlano dei loro ricordi, di quanto era una brava professoressa ma soprattutto di quanto per loro fosse una mamma, viene in mente proprio l’ultima battuta di Un’altra donna, espressione dei pensieri di una docente di filosofia di mezza età: «E mi chiesi se un ricordo è una cosa che si ha o una cosa che si è persa».
Ebbene, pensando agli altri e ai propri affetti, in nome del ricordo che lui – e per una volta solo lui, non l’attore o il personaggio al suo fianco – ha della sua mamma morta da poco, della sua mamma e non di sua madre, Moretti lo sa cos’è un ricordo: è qualcosa che si ha, qualcosa che ciascuno lascia in dono.
Per se stesso, invece, non lo sa ancora. E forse lo chiede al suo spettatore, in quello sguardo finale di Margherita Buy che non è proprio rivolto alla camera, ma un po’ più in là, un po’ a fianco.
(Pubblicato in origine su Doppiozero)