Il cinema italiano ha la fissa dei ’70. Da sempre, appena è stato possibile mettersi un po’ di anni alle spalle. Luchetti, poi, ci torna ciclicamente, non sa farne a meno, parla di «storia mitologica della sua famiglia» (titolo di lavorazione di Anni felici), ed evidentemente pensa che quella storia, la sua e la nostra, si sia incagliata lì, nei ’70, incastrata come il piede del suo alter ego in una rete metallica, ma soprattutto nell’ammasso di oggetti ed estetiche da modernariato che uniche ormai definiscono quel decennio, di solito pantaloni a zampa e Due cavalli oppure, come in Anni felici, performance artistiche, liberazioni sessuali, discorsi femministi e soprattutto super 8, materiale domestico che va bene se lo ritiri fuori da un cassetto e lo metti così com’è, come frammento di memoria (anche se dopo Redemption di Gomes è difficile fare pure quello…), ma se lo rifai oggi e lo monti insieme a tutto il resto, ovviamente traballante e sfarfallato, allora il risultato è il nulla, il vuoto del ricordo, il buio della Storia e dei corpi che la raccontano.
E per quanto nella ricostruzione Anni felici sia più sfumato di Mio fratello è figlio unico (o di roba simile come La criptonite nella borsa e I primi della lista), il super8 finisce per tradirlo, contribuisce pure lui al generale immagazzinamento di materiale storico di riporto che il cinema italiano porta avanti rispetto a un’epoca rappresentata come puro e semplice immaginario da cosmesi. Niente di più, altro che storia mitologica.
Mai una volta, insomma, che Luchetti e gli altri (Bellocchio a parte) riescano ad andare oltre l’accumulo, affetti come sono da una sindrome di Collyer per cui la Storia, privata e collettiva, puoi solo sperare di immaginarla e ricostruirla per somma di addendi.
Per questo, mentre vedevo Anni felici ho pensato a Homer e Langley di E.L. Doctorow, la storia un po’ vera e un po’ romanzata dei fratelli Homer e Langley Collyer, quello sì un racconto mitologico sulla Storia americana, l’elegia della lenta, inesorabile costruzione, decennio dopo decennio, di un archivio di ciarpame novecentesco. Ciarpame, ovviamente, che finisce per seppellire chi lo ha affastellato.
Tutto il romanzo è raccontato dalla voce stanca e morente di Homer, il fratello cieco. Ecco cosa scrive poco prima della fine:
Le immagini delle cose non sono le cose stesse. Da sveglio continuo a vedere nei miei sogni. Le macchine da scrivere, il tavolo, la sedia possiedono la sicurezza di un mondo solido, dove gli oggetti occupano uno spazio, dove non esiste il vuoto sconfinato del pensiero inconsistente che non porta ad altro che a se stesso. Più cerco di dominarli e più i miei ricordi sbiadiscono. Si fanno sempre più spettrali. La mia peggiore paura è perderli del tutto, rimanere solo dentro il vuoto infinito della mente. Se potessi decidere di impazzire, forse riuscirei a ignorare la mia tragica situazione, questa terribile consapevolezza che è irrimediabilmente consapevole di se stessa.
E.L. Doctorow, Homer & Langley (trad. Silvia Pareschi)
Erano anni felici, indubbiamente, peccato che avanti così li perderemo del tutto.