Un’affinità selettiva dedicata al Torino Film Festival, all’anteprima nazionale di Inside Llewyn Davis, ultimo film dei fratelli Coen.
Nel film c’è un tipico personaggio coeniano, un musicista folk dei primi anni ’60 che vaga per il Village di New York squattrinato e rabbioso, un po’ stupido, tanto cocciuto, con un talento nella media e nessuna possibilità di emergere. L’ennesimo uomo qualunque, insomma, meno passivo dell’uomo che non c’era, meno vittima del serious man, ma pur sempre tragico e ridicolo, ebreo ovviamente e destinato a essere schiacciato dalla Storia.
Senza un soldo, un lavoro e soprattutto una casa, il povero Llewyn Davis passa da un alloggio all’altro, esce dalle scale antiincendio ed entra dalle finestre, aspetta che qualcuno gli apra in stretti corridoio inquadrati col grandangolo e quindi ancora più angusti di quello che sono. Compaiono più di una volta, nel film, i corridoi: e come la neve di Fargo o il deserto di Non è un paese per vecchi, come le palle da bowling del Grande Lebowski o il cerchio di Mister Hula Hoop, probabilmente sono l’ennesimo concetto visivo e geometrico dei Coen. Addirittura, la figura di un uomo solo stretto in un corridoio potrebbe racchiudere l’intera idea di cinema dei due fratelli, la sintesi concettuale della presenza dei loro eroi in una Storia indifferente e beffarda.
La cosa sorprendente è che una risposta alla questione può arrivare leggendo un romanzo che con i Coen non c’entra nulla, Underground di Vladimir Makanin, librone russo che racconta il galleggiamento esistenziale di uno scrittore fallito nella Russia dei primi anni ’90, un uomo qualunque pure lui che per vivere fa la guardia agli appartamenti della gente benestante, quando questi si assentano per lunghi periodi. Smaliziato, immalinconito, sconfitto, ma pure acuto e beffardo, l’uomo attraversa la vita come se fosse il corridoio di un grande palazzo, vuoto e infinito. E ha pure una teoria sull’argomento:
Già lei richiude lentamente la porta dietro di sé. E già io vado oltre, non finisce lì il corridoio, non ho davvero motivo per affliggermi!... Quanto all’immagine del corridoio, sorta oggi per caso, è cresciuta fino a diventare norma, se non addirittura ordine universale del pianeta. È come se tutti gli uomini del mondo, e io non sono l’eccezione, si fossero perduti in corridoi come questi, estenuandosi per il troppo vagare, sbagliando continuamente strada, impossibilitati a trovare una volta per tutte ciò che cercano, la donna. Corridoi che ci circondano, corridoi qui e laggiù, ovunque. È come se ti avessero passato la "lippa" nell’antico gioco di padri e nonni, l’ordinario legnetto appuntito alle estremità - forza amico, gioca un po’ anche tu! - gioca un po’, corri, fa’ risuonare i tacchi in questi corridoi lunghi parecchi secoli. E con il gioco ti lanciano la facezia: non temere che il corridoio finisca, finirai prima tu! Checché possa dirne lui stesso, l’uomo vive di esperienze casuali, quelle rifilategli dalla sorte ancora negli anni giovanili. L’uomo, ahimè, non acquisisce. L’uomo usa l’immagine fino a logorarla. Il gioco di corridoio ha una sua ambiguità e una sua uniformità - tutte le porte da fuori si assomigliano. E lui, poverino, non me imbrocca una.
(Vladimir Makanin, Underground, Jaca Book, Milano 2012, p. 24, trad. a cura di Sergio Rapetti)
Non c’è forse da stupirsi che il sottotitolo del romanzo sia «Un eroe del nostro tempo», che ovviamente potrebbe riferirsi a ogni Llewyn Davis, Larry Gopnik o Ed Crane del cinema dei Coen…
PS: e a proposito di corridoi, di solitudine, di linee rette e diagonali che sembrano infinite, ho pensato poi alla scena di Taxi Driver in cui Travis telefona a Betsy e riceve da lei l’ennesimo rifiuto. A un certo punto della telefonata, Scorsese muove la macchina con un carrello da destra a sinistra, un movimento spietato che svela la devastante solitudine di un corridoio, e dunque, sempre a New York, in tempi meno eroici di quelli del folk revival, di un uomo.