Verso la fine di Ein ander Heimat, quarto tassello della saga di Edgar Reitz visto a Venezia, il protagonista Jacob porta la madre ammalata in un campo e si siede accanto a lei sotto un grande albero. “Da qui puoi vedere il mondo intero”, le dice, e l’inquadratura stacca su un panorama di colline che invadono l’orizzonte e non permettono all’occhio di spaziare. Ma nella Germania ottocentesca di Reitz, costretta dalla carestia a ripensare a un altrove dove rifondare la patria, l’heimat, Jacob e la madre sembrano per davvero vedere il mondo: lo sognano, lo immaginano (il Brasile verso il quale è partito il figlio maggiore, la terra degli indiani che Jacob non raggiungerà mai) e l’albero sopra le loro teste ne raccoglie i pensieri, conservandoli fra i rami nodosi.
Ein ander Heimat è fatto di grandi momenti (il primo incontro tra Jacob e le due contadinelle, la scene della vendemmia, la festa della composta), ma soprattutto di oggetti, di particolari, di immagini – in bianco e nero o colorate digitalmente come in un’incisione – trasformate in correlativi oggettivi.
L’albero dei sogni di Jacob e della madre, così reale da trasfigurarsi in figura poetica, mi ha ricordato durante la visione un altro albero carico di ricordi. Un albero anche lui cinematografico (la seconda affinità selettiva è già uno strappo alla regola: non un film e un libro, ma un film e un film…), che viene da Les destinee sentimentales di Assayas, melodramma dimenticato, malinconico e finissimo.
Siamo al minuto 103, c’è un albero ovviamente, un ciliegio, e il protagonista Jean, un pastore francese di inizio ’900 divorziato dalla moglie e innamoratosi della giovane Pauline, è seduto nel suo giardino dopo un giornata di lavoro (l’amore lo ha allontanato dalla religione e il destino lo ha portato a seguire le orme della famiglia di ceramisti). Pauline è anche lei in giardino, raccoglie delle ciliegie su una scala e in un intenso primo piano Jean la guarda innamorato. L’inquadratura stacca su Pauline, il cui volto è seminascosto dai rami: la donna si accorge di Jean, lo guarda stupita e scende sorridente dalla scala. Stacco su Jean, e poi nuovamente stacco sull’inquadratura di Pauline in cima alla scala, con il volto fra i rami: un jump cut in un film in costume ambientato nel 1913, il più classico dei film di Assayas, una rottura della logica del montaggio narrativo. Un modo quasi impercettibile, eppure clamoroso, per rappresentare la genesi di un ricordo.
Lo stesso ricordo ritorna alla fine del film, al minuto 168, riaffiorando in punto di morte dalla mente di Jean. Nel letto della loro stanza, Pauline sta leggendo un libro: parla di un giardiniere che passa il rastrello sulle pietre di un giardino per disporle in ordine. Poco prima abbiamo visto un giardiniere compiere la stessa operazione. “Un lavoro futile”, dice il libro. Jean si addormenta, Pauline lo crede morto e si spaventa, lo chiama. Jean si sveglia, stupito, non sta per morire. Sta ricordando: “Ero fuori nel giardino, sotto il ciliegio”. Stacco sul nero. Fine del film.
Ecco, l’albero di campagna di Ein ander Heimat e il ciliegio di Les destinee sentimentales sono due oggetti cinematografici bellissimi, e per quanto mi riguarda indelebili. Sono due esempi di come il cinema possa arrivare a rappresentare l’invisibile, l’altrove della mente e l’altrove del cuore, pur sapendo che rispetto alla complessità sia della mente sia del cuore il suo è un lavoro futile. Nonostante questo, però, non solo le stelle, ma anche gli alberi sono importanti.