È quasi la fine, Jasmine entra in casa, stanca, struccata, sfatta. Il futuro marito ha scoperto la verità sul suo passato, il figlioccio ritrovato le ha detto di non volerla più rivedere, la finzione è crollata. Con gli altri, con il proprio corpo, ma per Jasmine non con se stessa. Di fronte alla sorella e al fidanzato, ha ancora la forza di fingere, ignara dello sfacelo degli occhi segnati, dei capelli spettinati, della tragica ironia di una messa in scena smascherata.
È Norma Desmond, non c’è altra affinità che tenga, il viale del tramonto per lei è arrivato anche troppo presto. Jasmine segue gli stessi passi della diva dimenticata, è intrappolata nella medesima gabbia interiore, condannata all’oblio dei sensi e dello sguardo. Jasmine infatti non vede e non capisce, come non vedeva e non capiva la povera Norma ingannata dalla finzione delle riprese di un film impossibile; cammina per le strade di San Francisco inconsapevole di ciò che le sta attorno, smarrita nel passato, a tu per tu con i suoi fantasmi.
Per Norma la scenografia del disastro era una scala, per Jasmine, invece, essendo una creatura di Woody Allen, non può che essere la città: un parco, una panchina, uno spazio urbano (se solo l’Allen di oggi avesse la forza di filmare San Francisco come New York, di prendersi più tempo, di indugiare un poco sulla solitudine di Jasmine, sul suo rapporto con lo spazio della città, lasciando a lei il tempo di affogare e a noi spettatori di compatirla…).
È curioso, a ripensarci, come in molti film di Allen la camminata solitaria nella città sia sempre stata al contrario un momento di svelamento e consapevolezza. Era così in Manhattan, con la corsa di Isaac e il dialogo finale con Tracy, l’accettazione dell’età adulta e l’ammissione di solitudine; era così in Hannah e le sue sorelle, nel disperato vagare di Mickey lungo Midtown, chiuso poi dalla visione salvifica di La guerra lampo dei fratelli Marx. Ed era così, ancora, per la Marion di Un’altra donna, il suo personaggio femminile più compiuto, analitica, fredda, anche lei fasulla, sola a Central Park a ricordare un momento di rivelazione, il bacio con l’amore perduto della sua vita.
In quel finale meraviglioso, il più triste e malinconico di tutto il cinema di Allen, la voce fuori campo di Marion diceva così, finalmente pacata dopo giorni di tormento:
«E mi chiesi se un ricordo è una cosa che si ha o una cosa che si è persa».
Venticinque anni dopo, più anziano, meno riappacificato, forse più cinico, Allen stesso le ha risposto con la follia e la vigliaccheria di Jasmine. I ricordi sono l’unica realtà; l’unica inutile, inesistente realtà, quando si è troppo fragili, o meschini o fasulli, o semplicemente soli, per conquistarsi qualcosa.
(in collaborazione con Doppiozero)