Se il western al cinema non lo vede più nessuno (chiedete a Kevin Costner), in televisione pare invece funzionare benissimo (chiedete sempre a Kevin Costner, il cui Horizon capitolo 1, dopo il flop della sala, su Sky è andato piuttosto bene). Il piccolo schermo come spazio alternativo dell’attuale periodo altermoderno, per un autentico ribaltamento delle prospettive una volta impensabile, perché il western, come ci hanno sempre detto da oltre settant’anni con un assillante refrain (prima di smettere quasi totalmente di parlarne, chissà perché), è lo spettacolo americano per eccellenza e necessita del grande schermo per esaltare uno dei suoi tratti fondanti: the landscape. Quello stesso paesaggio osservato grazie alla profondità di campo che – proprio perché imprescindibile, non certo per caso – fu conservata nel momento del passaggio tra il muto e il sonoro, quando gli sfondi di ogni altro genere venivano appiattiti per non distrarre dalla meraviglia del parlato (se vi fidate, non c’è bisogno di chiedere a Bazin, Mitry o Comolli).
Il paesaggio, da tempo, diciamo dai primi anni Settanta, quando tutto fu rivisto, corretto e spogliato dell’epica, non è più motore estetico e narrativo, è diventato solo sfondo caratterizzante, contesto situante, e una vitalità televisiva, in un rinnovato ambito di ricezione spettatoriale, forse – ma qua so d’illudermi – con un pubblico mediamente più giovane, potrebbe anche non essere impossibile come sembrava fino a qualche anno fa. Chissà. Fatto sta che grazie alla televisione il genere pare respirare ancora, seppur affannosamente, così come anche la recente American Primeval su Netflix sembra confermare. Miniserie in sei episodi, creata da Mark L. Smith (autore della sceneggiatura di Revenant ma anche, ahilui, del remake americano di Martyrs) e diretta da Peter Berg, è un’immersione in un universo di violenza soffocante, più implacabile che spettacolare, ma condotta con un’accortezza particolare sul piano stilistico che merita una riflessione.
Utah 1857, confini politici e amministrativi in via di tumultuosa profilazione. Quattro i fronti di attenzione, variamente articolati: la comunità mormone, la cui spietata milizia è guidata dal (realmente esistito) governatore Brigham Young, disposto a tutto pur di difendere l’insediamento dei suoi fedeli (non stupisca la versione brutale dei mormoni, ché nel western della silent era rappresentava una costante); l’esercito degli Stati Uniti che prova a mantenere l’ordine all’interno del caos primordiale (da cui il titolo della serie); i pionieri che cercano un posto in cui vivere e gli Shoshones che quello stesso posto vedono portarselo via sotto gli occhi. Tra tutti questi fronti in contrasto tra loro, ad emergere sono le vicende di sopravvivenza di Sara Rowell (Betty Gilpin), su cui grava una taglia per aver ucciso un uomo, di suo figlio Devin (Preston Mota) e della guida Isaac Reed (Taylor Kitsch), incaricata di condurli in un avamposto nel quale la donna dovrà ricongiungersi con il marito.
Mark L. Smith si mostra subito lontano dalle modalità di scrittura e caratterizzazione di Taylor Sheridan, un altro che sta dedicando tutto se stesso a riproporre il genere sotto altra forma, per garantirgli la necessaria conservazione. Se Sheridan mostra una sensibilità maggiore verso le tonalità caratteriali dei suoi personaggi, inseriti in un incessante conflitto tra la difesa della tradizione e l’impatto devastante della modernità, Smith ha una visione storica più feroce e impietosa, in cui i rapporti si gestiscono esclusivamente attraverso la crudeltà e le relazioni stesse sono improntate al solo istinto di sopravvivenza. Il retaggio culturale di Smith riconosce il peccato originale di una fondazione edificata sulla violenza e sull’arbitrio, la cui visione poetica è il Liberty Valance di Ford, s’inzacchera nella melma della fase settantesca del filone Mud & Rags e si legittima attraverso il magistero del Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, che del disordine fondativo ha dato la versione più cupa e avvilente (e senza dimenticare quanto suggerito, seppur in un ambito diverso, dall’Overlook hotel di Shining, innalzato con tutti suoi incubi sul tentativo di occultamento di un genocidio).
L’universo di American Primeval è oscuro, quasi del tutto privo di speranza (e in quel quasi risiede il pericolo spoiler). In questo western che ha il gusto amaro della fine del mondo, anche se ne racconta la complessità degli inizi, ogni legge morale è totalmente assente, così come il concetto di trascendente, malgrado le apparenze di una comunità religiosa: l’unico imperativo è la sopraffazione che muove i personaggi all’azione brutale, riduce all’osso i dialoghi e caratterizza l’intera narrazione con un movimento incessante che è insieme fuga, riparo, tentativo di resistenza al Male. All’assenza di Dio e alla deviazione rispetto alla sua parola, la serie oppone stoicamente solo l’eroismo umanista incarnato da Sara e Isaac, i due protagonisti, alla ricerca di una via sicura nello scontro impari per la sopravvivenza di una nuova possibile umanità. Anche i colori della fotografia di Jacques Jouffret sono portatori di un’opacità che ha più il sapore dello scenario post-apocalittico che dell’epopea western; colori totalmente disseccati, desaturati per raggiungere un cromatismo svuotato di brillantezza, votato allo sconforto e alla costante sensazione di minaccia. Uno scenario privo di redenzione, ideale per una colonna sonora dei 16 Horsepower, se solo non si fossero sciolti da tempo.
L’aspetto più interessante, tuttavia, è la delimitazione dello sguardo di Peter Berg, che dirige tutti gli episodi: il suo orizzonte visivo è la deliberata negazione dello sviluppo spaziale proprio della fase classica del genere. I cascami del western moderno non hanno nel paesaggio nessun ancoraggio ideologico come un tempo e Berg pare esserne perfettamente consapevole, al punto da slabbrare le scene d’azione con il grandangolo e privando i personaggi di ogni orizzonte di luce al di sopra delle loro teste negli a tratti intollerabili momenti di violenza. Come se la terra si ripiegasse su se stessa, inghiottendo gli attori che se la contendono con così tanta avidità.
American Primeval è il rigetto del western attraverso l’esplosione fragorosa delle sue stesse dinamiche di prevaricazione: la decisione finale dei superstiti di cavalcare verso un altrove che non è quello cui hanno ambito per tutti e sei gli episodi è l’evidente tentativo di abbattere un’epica in cui non ci si può più riconoscere e abbracciare i tempi moderni, nei quali è approdata finalmente la civiltà.
1857. Nelle terre selvagge e in guerra dello Utah - un crocevia di conflitti territoriali, tensioni religiose e lotte per la sopravvivenza - si sviluppano le vicende di diversi personaggi impegnati a fronteggiare una realtà crudele e implacabile.