Una ragazza legge un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro avvenuto anni prima, durante il quale un anziano signore raccontò a sua volta una storia.
Con Moonrise Kingdom Wes Anderson ha scoperto il tempo, e ora ha deciso di usarlo come ha sempre usato lo spazio: incorniciandolo, trasformandolo in una cartolina, la cartolina ricordo di un sentimento di nostalgia. Il suo nuovo film, Grand Budapest Hotel, ha quattro decenni di storia - gli anni Duemila, gli anni Ottanta, gli anni Sessanta e gli anni Trenta - che corrispondono ad altrettanti livelli di racconto e, come matriosche, stanno uno dentro l’altro.
Il mondo di Anderson è ancora lì dove è sempre stato, in un altrove irraggiungibile in cui sarebbe bello abitare, ma in più ha la sua componente onirica, addirittura decadente. Non più il fumetto, la polaroid di famiglia o la testa di cinghiale da modernariato: le immagini di Grand Budapest Hotel sono figurine Liebig, illustrazioni da latta dei biscotti, trasferiscono nella cornice della cornice della cornice l'immagine ideale della Mitteleuropa, fasulla come già negli anni '30 delle operette alla Lubitsch e dei film Yiddish di Ulmer; ideale e idealizzata come il "mondo di ieri" di Stefan Zweig, i cui scritti, scopro alla fine film, sono alla base del film. Ma quelli di Zweig erano i ricordi di un europeo, mentre quelli di Anderson sono i sogni di un bricoleur, americano per nascita, sradicato per vocazione, ora mitteleuropeo per vagheggiamento, o forse divertimento.
Grand Budapest Hotel è infatti un divertimento spensierato e leggero, una storia di concierge e lobby boy, di omicidi ed etichetta, di lotte per l'eredità e fughe rocambolesche, in cui Anderson si libera per una volta dal dolore attonito tipico dei suoi figli senza padri.
Tutto quello che ci si aspetta dal suo cinema, ovviamente c'è: i carrelli laterali, i carrelli in avanti, le immagini simmetriche, le scenografie disegnate, l'umorismo caustico e la rabbia che esplode improvvisa... C'è tutto. Ma ci sono anche una sana rozzezza da turpiloquio e una rappresentazione della violenza poco stilizzata che provocano una piacevole sensazione di sfasamento, non un delirio freudiano alla Maddin (il cui magnifico Careful potrebbe essere un modello per Grand Budapest Hotel), ma un sogno più sinistro di quello che sembra.
La doppia, triplice, anzi quadrupla cornice scelta da Anderson porta infatti così a fondo nella spirale della Storia da generare strappi di energia inattesa, con la magnifica immagine del treno fittizio di Lettera a una sconosciuta (anche quello tratto da Zweig, e non è mica un caso) che torna più volte nel film ad evocare ancora una volta il potere del cinema di plasmare il tempo e i sogni come materia concreta, e pure un po' vischiosa.