Voltarsi indietro, guardarsi alle spalle: tentazione irresistibile, quando si arriva ad una certa età. Non fanno eccezione i registi più attempati del concorso veneziano, da Gitai a Sokurov a Bellocchio. Ma laddove i primi due fanno i conti con la Storia, Marco Bellocchio cerca la strada di casa, sceglie un itinerario privato, che porta a Bobbio, dove ha avuto inizio la sua storia personale di cineasta, visto che qui è stato girato I pugni in tasca. Ormai quasi cinquant’anni dividono quel film da questo, anche se le ossessioni del suo cinema rimangono le stesse: l’istituzione familiare e quella religiosa, la natura oppressiva di entrambe, la possibilità dell’individuo di sottrarvisi e di trovare la libertà nei territori dell’immaginario e della bellezza.
A ribadire che la posta in gioco è il rapporto fra passato e presente, Sangue del mio sangue è spaccato in due come una mela: prima una vicenda di inquisizione ambientata nel diciassettesimo secolo – nelle carceri di Bobbio una ragazza viene processata per stregoneria e accusata di avere indotto il suo giovane amante al suicidio – poi una contemporanea, ambientata negli stessi luoghi: un milionario russo vuole comprare le carceri di Bobbio, ma la sua iniziativa mette a subbuglio la comunità locale, serenamente impigliata in una rete di privilegi truffaldini che ne tutelano il benessere, psicologico ed economico. Visto che la classe non è acqua, Bellocchio evita le banalità del montaggio parallelo e mette lo spettatore di fronte a due blocchi narrativi ben distinti, sollecitandolo ad individuare i fili che, al di là dell’unità di luogo e del contributo dei medesimi attori, collegano la vicenda passata a quella contemporanea.
Nella prima la questione è metafisica – può una ragazza essere indotta al male da una presenza sovrannaturale e demoniaca? L’accanimento dei preti si nutre di elementi primordiali – acqua, fuoco, pietra – ma anche della pavidità del fratello del suo amante suicida, che non ha il coraggio di opporsi alla logica persecutoria della religione. Nella seconda invece – che non a caso rimanda ad un grande testo comico, l’Ispettore Generale di Gogol – il dramma religioso si tramuta in farsa, opera buffa: l’individuo osteggiato dalla comunità è un ciarlatano qualunque, i suoi persecutori quattro notabili di provincia che invocano non l’autorità divina, ma l’autorevolezza dei propri privilegi. L’austerità e la severità della religione (rimarcata da un utilizzo esemplare, nell’iconografia dei religiosi e del loro mondo, della pittura di fine cinquecento, El Greco in testa) lasciano qui il posto ad una galleria di figure banali, antiquate ma non antiche, conservatrici per interesse e non per fede. Nell’Italia odierna le contrapposizioni care al regista – di qua l’individuo, di là l’istituzione – paiono quindi sbriciolarsi sotto il peso di una mediocrità imperante e onnicomprensiva, che include vecchi e giovani. Dai tempi di I pugni in tasca molto è cambiato, ma per Bellocchio la provincia italiana continua ad essere un luogo da incubo.
Sangue del mio sangue potrebbe chiudersi qui, nella registrazione di un mondo ormai omologato in basso, così in basso da eludere sin la possibilità di un’eresia fertile. Ma entrambi i blocchi narrativi includono poi una sorta di postilla, dove il regista per l’ennesima volta – complici la bellezza della gioventù e la forza del desiderio – celebra l’utopia di una fuga dalla meschinità del mondo, come già nello splendido finale di Buongiorno notte. Da nessuna parte come nei film di Bellocchio l’immaginazione è al potere, ha l’ultima parola (e inquadratura). Nel suo cinema, per dirla con Nabokov, “gli specchi del possibile prendono il posto dello spioncino della conoscenza”. Di questi tempi, non è poco.