Non sparate su Terry Gilliam. The Zero Theorem riprende e ripassa le grandi ossessioni del suo cinema, concludendo un trittico che piazza Brazil e Twelve Monkeys sugli altri pannelli e qualcuno dei dodici titoli restanti in predella. Non spariamo sul suo immaginario barocco, sulla personalità debordante, sulla discontinuità che ne consegue.
Il film che l’autore angloamericano ha portato in concorso a Venezia 2013, lungi dall’essere perfetto e calibrato, come in uno specchio, come nello specchio di Parnassus, è un viaggio sempre più soggettivo, esplicito, ridondante e disperato nelle grandi questioni esistenziali, la disgregazione dell’uomo, il senso della vita. Un viaggio attraverso un immaginario che è anche mash-up bulimico delle proprie predilezioni figurative.
L’universo orwelliano dove vive Qohen Leth (non ci vuole molto a riconoscere il Qoelet biblico imboscato profeticamente in questo nome) è un futuro prossimo, quasi più un’ucronia, intasato di tecnologie sgarrupate, roba che sta già nel nostro quotidiano o nei suoi anfratti, paludato in un’estetica volutamente più kitsch del solito, perché i rubinetti dei produttori sono chiusi da tempo, e allora ci si deve adeguare e giocare il jolly del risparmio e del riuso.
Da questo stream di ciarpame rutilante Qohen (Christoph Waltz), che parla di sé al plurale, si sottrae, per la maggior parte del tempo, isolandosi in casa, una cappella neogotica che al suo interno accoglie un vero e proprio palinsesto di reperti dell’arte cristiana, mosaici paleocristiani e vetrate danubiane, retabli catalani impolverati, affreschi e lacerti d’ogni epoca, acquasantiere come lavelli e sculture come appendiabito. Il tutto dominato da un crocefisso a cui Management (Matt Damon), il mimetico datore di lavoro di Leth, ha sostituito la testa con una telecamera.
Qohen accarezza da tempo la possibilità di annullarsi, finire, sparire lì, in un buco nero che gli appare, sul monitor di lavoro, come un vortice cromatico che sembra di nuovo rimandare ai cieli infuocati di Altdorfer e di Grünewald, agli ultimi folli disegni di Leonardo. E invece gli tocca stare al gioco della vita, attendere chiamate, una in particolare, e rispettare ordini, come quello di risolvere lo Zero Theorem del titolo, convogliando frammenti di un’equazione infinita dentro a cattedrali di cubi in continuo movimento, parenti strette dei paradossi escheriani. La bionda e bamboleggiante Bainsley (Mélanie Thierry), forse, gli re-insegnerà l’amore, nei tempi e nei modi del virtuale, vestendolo con un costume da fool medievale. Il piatto è ricco, pure troppo, prendere o lasciare. Lasciamo la palla a Gilliam: come il suo Qohen, ha il diritto di scegliere quando spegnere il sole.