È mattina, relativamente presto, ma un sole implacabile scalda la terrazza dell’Excelsior. Al riparo di una delle tende bianche, un divanetto è occupato da un grappolo di giornalisti taiwanesi. Di fronte, Tsai Ming-liang risponde ridendo alle loro domande. Tra poco toccherà a noi di Cineforum e a Kuriko Sato, una minuta giornalista giapponese: il maestro taiwanese ha concesso un’intervista in francese, con la traduzione del suo executive, Vincent Wang. Le domande che mi sono appuntato sono tante, il rischio è sempre quello di imporre la propria visione all'intervistato («nel tuo film ho visto questo e quello»), soprattutto quando il suo cinema è così denso e misterioso. Ma si fa presto strada il presagio che un autore come Tsai a certe domande non risponderà, se non elusivamente…
K.S. La prima domanda è una curiosità: il titolo del film è lo stesso di un classico di Akira Kurosawa, Cane randagio, c’è qualche riferimento a quel film?
È un film che mi è sempre piaciuto molto, ma quando ho girato non era di certo tra i miei modelli. Il titolo che ho scelto è piuttosto legato al Taoismo, al pensiero di Lao Tse, che diceva: il cielo e la terra non ci trattano con benevolenza, ma come cani di paglia. E' relativo al fatto che noi non siamo niente di fronte all’universo.
A.U. A proposito di citazioni letterarie, sono curioso di sapere che cos’è la poesia che il protagonista recita e poi canta mentre regge il cartello pubblicitario.
È una poesia che tutti i taiwanesi, tutti i cinesi conoscono, soprattutto quelli che hanno più di quarant’anni, perché la si imparava a memoria a scuola. Qualche anno fa l’ho sentita cantare da un giovane, per strada, e ho capito che la si studia ancora. Durante la preparazione del film sono andato a incontrare e conoscere di persona gli uomini che fanno quel mestiere, che tengono per ore un cartello pubblicitario, e ho domandato loro cosa facessero, a cosa pensassero durante tutto quel tempo. Molti mi hanno risposto che dicono delle preghiere: per questo ho voluto che il personaggio di Lee Kan-sheng recitasse quella poesia, che è il marchio di un’epoca, parla di lavarsi di dosso la vergogna, di rivincita, delle contraddizioni dei sentimenti, e in fondo dà un po’ il senso di qualcosa che è sopito dentro di lui e sta per smuoversi.
K.S. Nel pressbook si dice che lei voleva ridurre lo stile narrativo in questo film. Ma la rarefazione narrativa è una caratteristica che contraddistingue il suo cinema fin dall’inizio. Cos’è cambiato dai suoi esordi, cosa intendeva per riduzione dello stile narrativo?
Questa volta forse volevo intervenire in maniera ancora più radicale sulle modalità di narrazione. Mi spiego meglio: per me ciò che è importante è concentrarmi sulla gestualità, sui gesti quotidiani di questi personaggi, che non veicolano per forza, a priori, informazioni narrative attraverso le proprie azioni. È in questa direzione che avevo voglia di andare.
K.S. Verso la fine del film i due attori protagonisti sono inquadrati, apparentemente immobili, per più di dieci minuti, è un momento che potrebbe sembrare un po’ misterioso allo spettatore.
Sono molto interessato a sapere cosa attraversa la mente dello spettatore di fronte a una scena così (ride). Per me, per un pubblico che abbia una certa esperienza di vita, o comunque di coppia, di vita amorosa, credo che quell’inquadratura debba per forza rievocare molte cose, sulla base delle proprie esperienze.
Questa coppia non è fisicamente distante, anzi, i due sono vicini, si sfiorano, eppure si percepiscono molte contraddizioni interiori, il sentimento dell’attesa, i timori e le paure, i ricordi in comune, dettagli che ci costringono a riconoscere che anche nelle nostre vite è successo qualcosa che somiglia a questa scena, a rivederci in essa.
Dunque è come se tutti fossimo portati, da soli o con qualcuno, che sia la famiglia o la persona amata, in fondo a un corridoio, a un sentiero, in questo luogo, che sia o meno in rovina: in fondo a quel cammino ci ritroviamo soli.
A.U. Sempre a proposito di quella scena: è stato detto, soprattutto per Bu San e per Visage, che con i suoi film più recenti lei celebra in qualche misura i funerali del cinema, o che quanto meno ne scrive l’epitaffio, a fronte di una perdita di fiducia nel cinema. Mi pare però che in questa lunga scena si celebri il contrario, per esempio quando si lascia il tempo a una lacrima di sgorgare e asciugarsi sulla guancia della protagonista. E di fronte a quella tenuta e a quel risultato viene anche da domandarsi come sia il suo lavoro con gli attori.
Ovviamente non posso che ringraziare infinitamente i miei attori, che riescono a tenere il ritmo lento che impongo loro, in particolare Lee Kan-sheng. Si sono abituati a recitare per me. Li ho allenati a essere se stessi, a non cercare di recitare, a non cercare di aderire a una sceneggiatura. Cercano semplicemente, attraverso la propria esperienza di vita, attraverso i film (hanno età differenti, un bagaglio esperienziale differente), di veicolare quella verità esperienziale, che è la loro forza.
Per esempio la scena in cui Lee Kan-sheng mangia il cavolo, in cui lo divora letteralmente, è stata girata in una sola ripresa, e abbiamo capito subito che era perfetta. Quella ripresa è stata sufficiente perché è stato come se in quel momento mangiasse il cavolo con tutti i venti anni di esperienza d’attore con me. In un solo take si è condensato tutto.
Poi c’è il lavoro con i bambini, a cui ho lasciato molta libertà di esplorare la scena. Ho lasciato loro del tempo affinché potessero veramente entrarci e sentirsi a proprio agio, facendo emergere quel sentimento di verità, muovendosi e trovando il proprio ritmo. Lo stesso capita con gli attori adulti: è il loro ritmo a imporsi alla scena. Non impongo affatto un ritmo particolare, chiedo solo che si prendano il tempo per calarsi nella situazione e sentirla per davvero, e dunque se hanno bisogno di più tempo glielo concedo.
K.S. Ma qual è il suo modo di filmare gli attori? Attendere che questa “verità” si manifesti mentre la camera sta già girando o farla emergere in fase di preparazione della scena?
Non facciamo prove, non si fa una preparazione propriamente detta della scena con gli attori. Più che altro disponiamo la mise en place della macchina da presa, l’angolatura, l’illuminazione e tutti i dettagli tecnici. Dopodiché si va in presa diretta. Quindi avviene tutto a motore avviato, si creano le condizioni per cui gli attori entrino nella scena. Non abbiamo mai fatto delle prove.
K.S. Lee Kan-sheng lavora da tanti anni con lei, cos’è cambiato, come è evoluto il suo lavoro?
È invecchiato (ride). E poi, ovviamente, oltre a invecchiare è anche maturato, sia nella gestione del corpo che nella performance attoriale propriamente intesa. So che posso esigere molto da lui, perché so che può liberare una grande forza, una grande intensità. Per esempio ho girato alcuni cortometraggi di una serie, Walker, dove deve camminare in maniera estremamente lenta, in mezzo al traffico, e quindi ripone una concentrazione e una forza estreme in ogni passo, perché io richiedo che ci sia molto in un gesto molto semplice, e lui è capace di farlo.
A.U. Si è spesso detto che il suo cinema è in qualche misura erede del cinema di Antonioni. Ma, laddove i luoghi antonioniani sono carichi di silenzio, nei suoi film i luoghi continuano inesorabilmente a comunicare qualcosa. Nel caso specifico, in Jiaoyou troviamo addirittura una casa che ha pianto. C’è per caso un nesso tra questo uso degli spazi e la tradizione orientale? E inoltre, quali sono, se esistono, le fonti iconografiche, antiche e moderne, che lei ha usato nella mise en cadre di queste situazioni sempre molto complesse, che sono dei veri e propri microcosmi?
Per principio, i miei attori non parlano molto nei miei film, e dunque dovevo escogitare qualcosa che sostenesse e compensasse l’assenza dei dialoghi, che facesse da contrappunto a questi personaggi. Dunque lo spazio è diventato un vero e proprio personaggio, in dialogo silenzioso con i protagonisti.
Nella tradizione del teatro e della pittura cinesi lo spazio è raramente definito nei dettagli. Per esempio, nel teatro d’opera cinese non si realizza praticamente alcun décor: un tavolo, due sedie, e si lascia che il pubblico si figuri il resto, con la propria immaginazione. Lo stesso avviene nella pittura e nelle stampe della nostra tradizione, dove si fa un ampio uso del bianco e del vuoto. L’ispirazione visiva propriamente detta mi viene dall’occidente, perché le arti figurative sono un po’ una prerogativa della cultura occidentale. Sono senz’altro stato molto influenzato dalla pittura occidentale.
A.U. A proposito di tradizione artistica occidentale: quando ha girato Visage al Louvre, era già previsto che vi sareste concentrati su tutta quella parte di museo che normalmente è preclusa allo sguardo dei profani?
Per tre anni ho visitato il museo del Louvre, rendendomi progressivamente conto che quello che mi interessava per davvero, ad un certo punto, era l’architettura del museo, sia quella vera e propria che la struttura organizzativa, funzionale, e non la parte delle collezioni, non quella più propriamente museologica.
A.U. Per quel che riguarda lo spazio, lei di nuovo fa un uso estensivo della pioggia, che è forse l’elemento emblematico della sua filmografia: in altre pellicole è un elemento erotico o comunque sensuale, qui sembra invece sottolineare una dimensione drammatica, anche di povertà, recuperando una propria essenza realistica.
Sono d’accordo con te (ride). Però l’acqua, non solo la pioggia, è un po’ una parte oscura dentro ognuno di noi. Ho messo l’acqua, in forma di piccoli laghi, anche all’interno del palazzo in rovina, oltre che filmare la spiaggia e il fiume. Nella scena in cui Lee Kan-sheng prende i suoi bambini e cerca di portarli via in barca è come se cercasse una via di fuga da quella situazione, da quel mondo, affidandosi proprio a quella forza oscura.
Monsieur Tsai deve congedarsi, la conferenza stampa ufficiale incalza. L’ultima domanda è indirizzata a Vincent Wang, la nostra curiosità è evidente: questo sarà davvero l’ultimo film di Tsai Ming-Liang? «Ormai non ci credo più. La prima volta che me l’ha detto aveva appena terminato Bu San, son passati più di dieci anni…» e dieci film, tra lunghi e corti.