A differenza di ciò che il suo aspetto deciso potesse lasciar intuire, Janis Joplin, il simbolo femminile e femminista della rivoluzione culturale, controcorrente per natura, ebbe fino all’ultimo l’insaziabile bisogno di un riscontro emozionale/affettivo degno della più insicura “lavapiatti domestica” (termine con cui lei stessa definì le casalinghe prostrate da mariti dispotici).
Questo è quello che emerge dal documentario dedicatole da Amy Berg, raro esempio di un cinema capace di scalfire, mediante l’oggettività dell’immagine d’archivio, anche gli assiomi più duraturi. Infatti, dietro quella scorza da compagna di bevute schiacciasassi, testarda al punto da abbandonare il Texas e la famiglia per agguantare sicura i propri sogni, vi fu sempre una figura dipendente dal contatto umano (oltreché da droghe e alcol).
Un lungometraggio, quello della Berg, in passato candidata all’Oscar con il doc Deliver Us from Evil del 2006, di enorme portata per la sua capacità di mostrate attraverso documenti esclusivi e testimonianze toccanti una Janis che pochi erano stati in grado di comprendere. Evitato ogni tipo di divismo, un demone filmico recentemente capace di fagocitare le più disgraziate star musicali del passato per poi rigettarle sugli schermi, il documentario procede sicuro e indiscreto negli studi di registrazione mentre nasce la straziante Summertime, o tra la folla esaltata del Festival Pop di Monterey in California. Un percorso obbligato, scandito dalle missive che la giovane cantante spediva regolarmente alla famiglia, ingessata e conformista al punto da esserne stravolta.
In un Festival caratterizzato (e in parte sorretto) dai grandi documentaristi sbarcati al Lido, è un piacere sentir risuonare nelle sale una delle più particolari e inconfondibili voci della storia, tanto acuta e istrionica da aver costituito un punto di non ritorno musicale. Un cortocircuito sonoro impossibile da afferrare completamente, ma comunque ben imbrigliato alla narrazione filmica, forse più interessata (giustamente) al lato umano che a quello artistico/pubblico. Perché Janis è proprio questo, un ritratto minuzioso e accorato, unico nel descrivere il rapporto visceralmente erotico tra questa artista e il suo pubblico, costantemente condizionato da una smania bulimica d’amore, tipica delle persone più ingenue e genuine.
È incredibile vedere quanto ci si possa sentire soli essendo la più grande cantante vivente, osannata dalle masse e circondata da gruppi ed entourage foltissimi. Un percorso di scomposizione emotiva difficilissimo da superare per lo spettatore, in cui i veri affetti svaniscono silenziosamente come ghiaccio al sole e dove la protagonista resta sola con il proprio inconfondibile sguardo vispo. Ma non c’è comunque da preoccuparsi, anche grazie a opere del genere, c’è (e ci sarà sempre) qualcuno pronto a ballare e far l’amore con questa musica, la tua, cara Janis.