INTERVISTE

interview top image

Assayas: cinema, nuvole, giovinezza

Sils Maria è forse l'apice della carriera di Olivier Assayas, un capolavoro di scrittura e messinscena, una riflessione sulla vita e la sua rappresentazione, sul cinema e il suo rapporto con il tempo. Ne abbiamo parlato con il regista francese: ne è nata una conversazione sul cinema, la giovinezza, Juliette Binoche, Kristen Stewart, il corpo, le nuvole, la rappresentazione dell'invisibile...
 

Da dove viene Sils Maria?
Tutto nasce da Juliette Binoche, che un giorno mi ha chiesto di fare un film insieme. Ci conosciamo da molti anni, forse c’è sempre stata la voglia di fare qualcosa insieme, ma in realtà non ero molto convinto. Juliette non è un’attrice semplice, non è facile lavorare con lei. Poi ho capito che aveva ragione, che c’era un film, e che questo film sarebbe nato non solo dalla nostra relazione, ma anche e soprattutto dal tempo passato, dal fatto che io e lei ci siamo conosciuti molto giovani e abbiamo vissuto carriere parallele, incrociandoci solamente per L’heure d’etè, nel quale però non c’era stato spazio per un vero e proprio dialogo. Riflettendo sul mio rapporto con lei, ho capito che avevo dialogato con Juliette attraverso i miei film e che da questa sensazione poteva nascere un nuovo lavoro. Era interessante interrogare la distanza che mi unisce e insieme mi divide da lei, il fatto che abbiamo in comune un tempo che esiste grazie al cinema, dal momento che abbiamo lo stesso punto d’inizio: Rendez-vous di Techiné, di cui lei era la protagonista e io lo sceneggiatore.


 

Dopo aver parlato di giovinezza, età adulta, amore, legami familiari, in Sils Maria per la prima volta parli del tempo. E in particolare del rapporto che ciascuno di noi instaura con il proprio tempo, con il presente, il passato e il futuro. È forse il tuo primo film «maturo»? 
In realtà non penso al tempo in termini di invecchiamento: per me è il tempo è come se fosse immobile, ho ancora la sensazione di essere la persona che tanti anni fa cominciava a fare film o prima ancora a dipingere. Però è vero che con il passare degli anni qualcosa si aggiunge alla personalità, forse l’esperienza del mondo, forse la percezione delle cose, che ci fa diventare meno intuitivi e più riflessivi. Resta comunque il fatto che la questione del tempo e dell’invecchiamento è più facile da affrontare quando uno è un regista, o più in generale un uomo. Per le donne e per le attrici è molto più difficile, ci sono segni che il tempo lascia sulla volto e che la cinepresa riprende come un microscopio.


Per questo hai deciso di fare di Juliette Binoche, del suo volto e del suo corpo, il fulcro del film?
L’esperienza di Juliette mi permetteva di parlare del tempo attraverso un dolore che io non vivo, ma posso capire. Il mio modo di andare verso Juliette e di rimando il modo in cui lei doveva appropriarsi del suo personaggio erano complementari, c’era come una dinamica tra me, lei e un'esperienza comune ma differente del tempo passato. Per rendere viva questa tensione avevo però bisogno di una controparte giovane, e da qui è venuta l’idea del personaggio di Valentine, l’assistente dell’attrice protagonista. La presenza della giovinezza è da sempre fondamentale nei miei film, perché penso che il cinema stesso sia un’arte della giovinezza: c’è qualcosa di costitutivo nel rapporto che instaura non solo con la rappresentazione di quel periodo della vita, ma anche con il pubblico giovane. Sapevo dunque che nel film ci sarebbe stata una relazione fra una donna matura e una giovane e che la mia posizione di regista sarebbe stata ambigua, perché per quanto coetaneo di Maria mi sento molto più vicino a Valentine.



La cosa stupefacente di Sils Maria, proprio in relazione al tuo rapporto con il presente e la giovinezza, è il modo in cui metti in gioco la tua stessa idea di cinema. Da sempre sei tentato dalla rappresentazione dell’invisibile, dagli aspetti più intimi della vita, e lo fai con uno stile che affonda le sue radici nel cinema della modernità nato a partire dagli anni '60. Eppure questa volta arrivi a ricrearti altri modelli di riferimento, ti inventi film di fantascienza in 3D, filmati televisivi sciatti, riprese da YouTube, inseguendo la leggerezza e la piattezza del digitale…
Il cinema deve sempre avere a che fare con il presente.
E per il cinema moderno, quello cristallizzatosi per l’appunto a partire dalla nouvelle vague, niente sarebbe più pericoloso che chiudersi nel proprio spazio estetico. L’invenzione di un cinema moderno non è un paradigma, ma piuttosto l’idea che si debba essere in costante connessione con il mondo, che si debbano vivere gli stessi cambiamenti del mondo, o quanto meno esserne testimoni. I miei film hanno ancora le loro radici negli anni ’60 e ’70, o nel cinema americano con il quale mi sono formato, ma sono animati dall’ossessione di osservare un mondo completamente diverso e dunque alla ricerca di una sintassi anch'essa diversa.

Mi piace molto come nei tuoi film ci sia spesso qualcosa - un oggetto, un testo, un’opera d'arte - che fa parte del racconto e al tempo stesso ne racchiude il senso. Penso al foglio bianco di L’eau froide, al ciliegio di Les Destinées sentimentales, al quadro di Joseph Beuys in Fin août, début septembre... In Sils Maria ci sono invece un testo teatrale, un film muto, un paesaggio di montagna, le nuvole... Qual è il senso di tutti questi «mondi a parte» con cui animi i tuoi film?
Da sempre inseguo l’idea di catturare le cose visibili e invisibili della vita. Per me l’invisibilità non è un’astrazione o un’idea mistica, ma è fattuale, una cosa che si può dimostrare e toccare. Sils Maria l’ho fatto per ragioni che all’inizio non capivo: sapevo ad esempio che c’era una connessione tra Juliette e il paesaggio di Sils Maria, che conoscevo molto bene; ma solo dopo aver visto un po' per caso Das Wolkenphaenomen von Maloja (1924) di Arnold Fanck ho capito che sarebbe nato un ulteriore legame fra lei, le nuvole e quel film. Le nuvole di Maloja filmate da Fanck le avevo già viste nelle realtà (in una forma ancora più bella di quella poi finita nel mio film) e nonostatnte non sapessi nulla di quel particolare fenomeno atmosferico ne ero rimasto affascinato, ne avevo registrato l'immagine. Da quel momento il legame fra l’attrice protagonista e il paesaggio di montagna si è fatto da solo, perché non si trattava di scrivere, di inventare un film per Juliette, ma di trovare qualcosa tra me e lei.



E l’immagine che dai nel film di Juliette Binoche è fedele a quella che hai di lei nella realtà?
Dovevo e volevo ripresentare Juliette così come è nella realtà
, utilizzando ciò che ogni spettatore di cinema conosce di lei. Dunque Maria doveva essere un’attrice come Juliette, cioè una professionista che lavora tantissimo, e nel film avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale la riflessione sul testo e la discussione sui personaggi; da qui l'idea del luogo tranquillo in cui lavorare e la relazione con l'assistente... Sils Maria è nato in maniera naturale, un po’ alla volta, organizzandosi quasi da solo. Attraverso il film di Fanck, però, sapevo di non essere interessato alla bellezza della montagna o all'idea di filmare un’attrice stagliata contro il paesaggio: quello che mi interessava di Sils Mara erano i suoi rimandi artistici e culturali, la presenza in passato di artisti e intellettuali e la convivenza lungo i suoi sentieri di storie e idee complesse e contraddittorie. Lo stesso Fanck è stato sì un grande regista, ma pure un nazista, e volevo cogliere proprio questa ambiguità, rendere il senso di una presenza sinistra e invisibile. E nel film l'invisibilità è simbolizzata dalle nuvole.

In Adieu au language di Godard, che a Cannes è stato presentato due giorni prima del tuo film, a un certo punto si sente una frase illuminante, e cioè che l’alternativa è tra essere e raccontare. Penso che Sils Maria arrivi in qualche modo alle stesse conclusioni: è un film sulla vita e sulla sua rappresentazione, soprattutto in relazione al discorso che fai sulla celebrità, sul web, sulle immagini di consumo immediato... Sei d’accordo?
Internet è una parte della nostra vita, non una realtà esterna a noi
, e l’elemento fondamentale che chiama in causa è inevitabilmente quello della finzione. Oggi un’attrice, specie se giovane, ha un dialogo costante con la sua rappresentazione e di norma vive tre vite: quella di ogni giorno, quella dei personaggi che interpreta e quella del suo avatar. In giro per la rete c’è un personaggio che porta il suo stesso nome, che vive una vita più o meno astratta e che può influenzare in maniera più o meno controllata le altre. Il web non è una visione oggettiva della realtà, ma un palcoscenico dove ognuno dà una rappresentazione di sé. È ovvio che per un’attrice tutto questo venga vissuto in maniera più profonda... 

A questo punto viene naturale chiederti di Kristen Stewart e del suo personaggio Valentine, il più ambiguo e inafferrabile del film. Come hai scritto una figura così fugace e indefinita, capace di sparire dalla scena, ma al tempo stesso di lasciare il segno indelebile dell’assenza, del mistero?
Tutti i personaggi di Sils Maria sono stati scritti in modo molto preciso, ma al tempo stesso modificati dai loro interpreti. La parte di Valentine era stata in realtà pensata per Mia Wasikowska - e sono sicuro che anche con lei avrebbe funzionato benissimo - ma nel momento in cui è subentrata Kristen (che a dire il vero era la scelta iniziale, poi saltata per varie ragioni e ritornata in auge nel momento in cui Mia è stata costretta a rinunciare al film per questioni contrattuali con un'altra produzione…) ha preso una sua nuova forma. L’ambiguità del personaggio ha ovviamente a che vedere con quello che ho scritto, ma anche con l’interpretazione di Kristen: se ne è appropriata in modo sottile, intelligente, e io mi sono limitato a suggerirle di interpretare sì un personaggio pragmatico e quasi brutale, ma anche affettuoso. Per me era importantissimo provare empatia verso Valentine, perché l’identificazione dello spettatore nei suoi confronti è essenziale. In Sils Maria l’identificazione si muove continuamente, passa da un personaggio all’altro, ma Valentine è come privilegiata; in un certo senso sono io che mi sento più vicino a lei rispetto al personaggio di Juliette, nonostante la differenza di età. Quello che mi interessava nella sua sparizione era la sua eco, la sua risonanza: Valentine sparisce dalla scena, ma proprio per questo non ha una fine dentro il film, lo spettatore può continuare a pensare a lei una volta uscito…

A proposito del rapporto fra il corpo e l'assenza, non pensi che con gli anni il tuo cinema si sia fatto meno fisico e diretto e sempre più discorsivo, anche per via dell’immersione nella narrazione televisiva di Carlos? In tal senso, mi sembra che Sils Maria realizzi una sintesi delicatissima fra questi aspetti del tuo cinema, quello antropocentrico, diciamo, e quello narrativo…
La verità è che Carlos è sì un film per la tv, ma il più cinematografico che abbia fatto: proprio in reazione al formato televisivo, infatti, ho sentito il bisogno di spingermi verso il cinema. Ho usato lenti più grandi e più larghe, perché volevo filmare paesaggi, appartamenti e spazi in cui il décor fosse fondamentale. Fino a quel momento avevo utilizzato solamente lenti lunghe, con un effetto astratto, ma in Carlos mi sono forzato di aprire il più possibile, di aprire, aprire, aprire... fino ad arrivare a reinventare il mio rapporto con lo spazio. Da lì in poi non ho più cambiato, voglio filmare con più prospettiva e avere una presenza maggiore del corpo nelle inquadrature. Prima filmavo solo facce, mi interessavano solo quelle, ora invece riprendo il corpo intero in una maniera nuova e per me più soddisfacente. La cosa è stata di fondamentale importanza con Kristen, ad esempio, poiché lei usa il suo corpo come una ballerina. Ha una mobilità e una modernità straordinarie nell’uso del fisico, sembra quasi che non lavori, ma il modo in cui si posiziona sulla scena è magnetico, davvero impressionante.