“Novecento premi” è una cifra spropositata, quasi iperbolica. Simone Massi li ha accumulati in trent'anni di lavoro. Premi di festival e rassegne in tutto il mondo, enti cinematografici, associazioni e istituzioni culturali, giurie formate da esperti, artisti, critici, giornalisti. Eppure è dovuto arrivare a 54 anni per vedere il suo primo lungometraggio sul grande schermo.
Quel numero, “novecento” (più di novecento, in realtà), è il simbolo di una sproporzione paradossale, tra la grandezza di un'arte universalmente riconosciuta – adottata anni fa anche come simbolo della Mostra di Venezia (la sigla del festival tra il 2012 e il 2016) – e la sua scarsa diffusione tra il pubblico, che pure ha sempre mostrato di amarla, quando ha avuto l'occasione di incontrarla.
A questo proposito, si potrebbero fare molti discorsi sui meccanismi di produzione e distribuzione, in un tempo fondato sulla presunta disponibilità di ogni cosa, materiale o immateriale, consumabile a volontà. L'illusione di una “libertà assoluta” che in realtà è solo un'idea (un'ideologia), un catalogo di possibilità, l'imbocco di un imbuto che in realtà filtra i “prodotti” in base alla loro appetibilità media, lasciando all'algoritmo il compito di individuare nicchie profittevoli.
D'altra parte Simone Massi ha scelto di vivere tra le colline marchigiane, in un borgo di poche anime, una frazione di Pergola, lavorando ai suoi film d'animazione con lo stesso spirito con cui i suoi avi lavoravano la terra. Le mani sporche (di colore o di fango, poco importa), la fatica, il sudore, ma anche lo sguardo che si volge umilmente all'insù, quasi con reverenza, di fronte alla vastità del cielo, la luce sulle colline, la bellezza della natura.
Niente è più lontano dal mondo dell'industria culturale dal suo modo di vivere e di intendere il cinema. Chi può essere così folle, al giorno d'oggi, da realizzare i propri film disegnando un fotogramma alla volta? Chi vuole ancora sentir parlare di civiltà contadina e operaia, di quelle cose semplici, di quegli esseri umani (e animali) dimenticati, lasciati ai margini della storia? Tutti quei vinti che abitano in “nessun posto”, in nessun luogo in particolare, Invelle.
Questo film poetico e potente attraversa sessant'anni di vicende italiane - la Grande Guerra, il fascismo, la Resistenza, il terrorismo – per mostrarci l'invisibile della storia, un piccolo mondo sconfinato pieno di storie, sogni, ingiustizie, speranze, relazioni, ideali. Un mondo che ci sembra quasi di vedere per la prima volta. Così come la “grande storia”, filtrata dallo sguardo dei bambini, che in un certo senso le ridanno vita, la liberano dalla grigia e sterile vaghezza della rappresentazione istituzionale.
Ed ecco il disegno che vibra, la materia incisa, le cose e le persone che emergono dal buio di un foglio, liberando le forme, scolpendole nella luce e nell'ombra. Un cinema in bianco e nero (e un segno rosso) pieno di vuoto, in cui è bello sprofondare. Una metamorfosi infinita, in cui riconosciamo visioni e intuizioni del cinema di Massi, e di tanto altro cinema. Allusioni e allitterazioni visive, gesti semplici e valori importanti, che raccontano un certo modo di stare insieme, di essere comunità (cose, persone e animali, natura e cultura). Un mondo pieno di contraddizioni, ma profondamente autentico. L'esatto contrario di quello arrogante e illusionista in cui viviamo. La sproporzione, di nuovo. Da una parte l'assedio delle immagini “libere”, rumorose, colorate, che acceca. Dall'altra un cinema che incarna un modo diverso di guardare le cose e di condividerle con gli altri, contemplandole nella loro nuda, sognante, realtà.
Simone Massi non ha mai pensato di essere un intellettuale, non gli interessa fare il martire eremita, l'artista ombroso, il comunicatore sentenzioso. Lui vive semplicemente la vita che ha sempre desiderato, nella sua essenzialità materiale e ideale. Ma amerebbe essere rispettato, nel lavoro che fa (la parola “arte” la usiamo noi), e arrivare al maggior numero possibile di persone.
Questa è l'occasione per farlo. Al cinema.
Intervista a Simone Massi: l'arte poetica e le fatiche produttive, la vita isolata (felice) e il cinema invisibile, la civiltà contadina (famiglia!) e lo sguardo dei bambini.
La tua dimensione è sempre stata quella del cortometraggio. Inevitabile, per chi lavora come te, un fotogramma alla volta (un'opera d'arte in movimento che è la somma di tante opere d'arte). Un lavoro solitario, personalissimo, quasi autarchico. Cosa significa passare da quella dimensione alla progettazione di un lungometraggio? C'è stato un tempo in cui pensavi fosse un'impresa quasi impossibile. Soprattutto in un paese come il nostro, in cui il cinema d'animazione d'autore è la nicchia di una nicchia.
Subito dopo essere diventato padre ho detto pubblicamente che avevo chiuso con il cortometraggio autoprodotto. Da un anno era pronto un soggetto, cioè avevo in mente di passare al lungo già nel 2012. Sulla carta era difficilissimo, per la mia inesperienza, per quella della casa di produzione, per tutto il vuoto che avevamo intorno. Probabilmente era esattamente per questo che andava fatto il tentativo. Anche perché mi pare di aver sempre fatto un lavoro di ricerca e non mi sono mai arreso alle difficoltà, alla paura del nuovo. L'identità dei personaggi, i dialoghi, la "tenuta" della storia sulla lunga distanza... inizialmente hanno costituito più di un pensiero, non lo nego. Ma tutte le preoccupazioni sono evaporate negli anni, mentre aspettavo un semaforo verde che sembrava non dovesse arrivare mai.
Ci riassumi le tappe di questo viaggio? Il percorso produttivo?
Nel 2012 scrivo il soggetto, c'è l'interesse di una casa di produzione, firmo un contratto, in due anni non succede niente. Il soggetto passa alla Minimum fax media, si succedono tre diversi produttori, anzi quattro considerando la produttrice francese. Vengono combinati una serie di pasticci, scrivo la sceneggiatura condizionato dal clima di confusione e dalle pressioni di figure non all'altezza, preoccupate di tutto: il segno, la vibrazione delle immagini, il bianco e nero, la storia... Non c'è niente, a detta di queste persone, che funzioni, vogliono il mio nome certo, per il resto devo fare quello che mi dicono di fare. Provo ad accontentarli dove posso ma niente si muove. Dopo otto anni, non sono ancora stati trovati i fondi, i contratti sono scaduti, me ne vengono fatti firmare di nuovi, con nuove promesse. Otto anni di niente e alla fine anche un tonto come me capisce il gioco di gente senza arte né parte. Sono stanco di essere preso per il culo, comincio a non rispondere alle mail, mi disinteresso al progetto. All'inizio del 2020 Minimum fax individua in Salvatore Pecoraro il nuovo produttore e qualcosa comincia finalmente a muoversi. Salvatore prova a mettere ordine nel caos, ad aggiustare le cose, la situazione disastrosa che ha ereditato. In alcune cose riesce e in altre no. Ma non posso fargliene una colpa e non posso dimenticare due cose: la prima è che Salvatore mi concede libertà assoluta, su tutti i fronti, mi fa lavorare come voglio io. Sembra scontato e non lo è. La seconda cosa è che il film c'è, esiste.
Come è stato insegnare ad altri la tua tecnica, quello stile che in fondo ti rende unico al mondo? I tuoi lavori si riconoscono anche e soprattutto per questo, l'immagine scavata, che emerge dalla materia, quasi incisa. Sei soddisfatto del risultato (collettivo) finale?
C'era già una squadra rodata che aveva collaborato con me ai tempi de La strada dei Samouni di Stefano Savona. Insegnare la tecnica ha riguardato solo i disegnatori nuovi, ed è stato semplice per merito loro, grazie al loro talento e alla loro disponibilità. Sono molto contento del risultato finale, in alcuni casi sono rimasto letteralmente ammirato dall'interpretazione della tecnica, ci sono almeno tre disegnatrici che reputo più brave del sottoscritto.
I tuoi corti sono dei lunghi piani sequenza, un movimento in avanti (o all'indietro) che sembra non finire mai. Anche qui, pur di fronte alle necessità di un lungometraggio, di una vicenda che ha anche un suo sviluppo narrativo lineare, hai mantenuto la propensione alla metamorfosi, le cose che nascono dalle cose, tempi e spazi che si intrecciano e si confondono. Perché è così importante questo aspetto tecnico-stilistico per te?
Perché mi piace, perché le cose cambiano di continuo, perché il cinema di animazione deve necessariamente essere altro rispetto a quello di finzione o documentaristico. L'animazione, per come la intendo, deve impastarsi di sogno e ricordarsi di togliere il terreno sotto ai piedi dello spettatore.
Tornano anche le "nuvole" e le "mani", la realtà fisica, il sudore, il dolore, insieme alla dimensione del sogno, l'immaginazione. Che però non sembra mai una via di fuga. Non si tratta di rifugiarsi nella fantasia, una facile consolazione, semmai è un modo di guardare e quindi comunicare (condividere amorevolmente) quella realtà, la sua anima segreta. C'è sempre questa compresenza nel tuo cinema, che non è mai banalmente impegnato, anche se è profondamente politico, parla della nostra società (come eravamo, cosa siamo diventati), ma parla soprattutto di esseri umani, e di animali, emozioni, senso.
È quello che conosco meglio, che mi pare più importante da dire. Ho la possibilità di raccontare, di avere molte persone, anche lontane, disposte ad ascoltare: sono consapevole della fortuna che ho avuto, cerco di non sprecarla, condividendo quello che sento, appunto.
C'è anche qualcosa di sacro in questo tuo modo di guardare le cose, una realtà in cui tutto è legato a tutto, animali, cose e persone, oggetti semplici, costruiti dalle mani dell'uomo, e paesaggi sconfinati, da contemplare con stupore. La meraviglia del mondo.
È vero. Con il passare degli anni ho lasciato per strada molte convinzioni, molti pezzi di armatura, e mi sono fatto più piccolo e leggero. Non so bene come dire, è stato come tornare a far parte dell'insieme, come essere infinitesimale naturalmente, granello pressoché insignificante. Questo mi ha riavvicinato alla religione, al senso del sacro, alla bellezza del mondo. Molto probabilmente è un cambiamento dovuto alla paternità, allo stare in mezzo ai bambini. Parlo dei miei figli, che adoro, ma non solo. Mi piacciono i bambini in generale, passo molto tempo con loro, giocando e ascoltando. Non è da escludere che abbia ripreso a guardare il mondo con i loro occhi.
Continui a raccontare un mondo dimenticato, la civiltà contadina, trasformata poi in classe operaia. Cosa ci può insegnare, oggi, guardare quel mondo? Perché intrecciare quella realtà, che è poi la storia della tua famiglia e di tante famiglie come la tua, con quella d'Italia?
Continuo a raccontare un mondo dimenticato perché mi sta a cuore e mi pare ce ne sia bisogno. Non so cosa può insegnare, non mi viene in mente niente. In linea di massima cerco di evitare lezioni o giudizi. Poi ho dei pensieri, certo. Il mondo cambia e si lascia indietro il passato, è normale che sia così. Di nuovo, semmai, c'è la velocità del cambiamento. Una perenne, affannosa corsa all'ultimo aggiornamento. A cosa e dove può portare questa corsa infinita davvero non riesco a immaginarlo. Anche perché da essa ho scelto di chiamarmi fuori, da subito. Vivo in un borgo di una cinquantina di persone, per la maggior parte bambini e donne anziane, gli uomini sono morti quasi tutti. Il tempo, la vita, scorrono in una maniera diversa, come se si fosse ancora nel '900. Ci si siede fuori, su una panchina, su uno scalino, sull'erba e si ascolta o si parla o si gioca. La civiltà contadina, l'emigrazione, la miniera, la guerra, le filastrocche, i giochi in strada: nel mio mondo, nella mia vita, ci sono ancora. E muovono dei sentimenti, amore e rabbia, dolcezza e amarezza. La mia famiglia è molto più grande di quello che sembra, le storie sono storie di tanti e cominciano e finiscono fin dove so: le storie dei vecchi, quelle di me bambino. L'Italia e la Storia invece sono lontane, indecifrabili, un qualcosa che si può vedere solo lasciando il borgo e salendo sulla luna. Mi chiedo se qualcuno c'è stato davvero, se è davvero così semplice.
Tu hai scelto di vivere in Invelle, in una dimensione che sembra essere fuori dalla storia, ma che in realtà è quella che le dà un senso, per quanto nascosto e dimenticato. Negli anni c'è chi ha parlato della tua vita tra le colline marchigiane come di una scelta quasi ascetica, specchio del tuo modo di intendere il lavoro, rigoroso, senza compromessi. Ti vengono dei dubbi, a volte, su questa tua scelta di vita? O, al contrario, gli anni e le esperienze ne hanno rivelato la bontà?
Non c'è mai la controprova e domani non so. Fino ad ora nessun dubbio, è una vita a misura di bambino e dunque ideale. Mi mancano talvolta gli incroci e gli incontri e gli scambi, con amici lontani, persone che stimo e che possono aiutarmi a crescere. Ma tutto non si può avere e le persone buone non stanno in un posto solo, sono sparpagliate nel mondo. A Pantana Serralta non c'è niente di importante o che possa essere considerato bello, niente che meriti una fotografia. Eppure si sta bene. Ci stanno bene i vecchi, i bambini, i gatti, ci sto bene io. Mi mette pensiero quando non ci saranno più le donne, intendo le anziane del borgo. Sono diventate tutte come parenti, sono importanti, mi hanno insegnato come si vive in comunità. Non so come si farà senza di loro, con le case vuote e nessuno seduto fuori.
Oggi va di moda la parola "resilienza". La tua, invece, sembra una "resistenza" alla vecchia maniera. Resistenza estetica, poetica, ma anche umana, sociale. Da fuori può apparire perfino ostinata, testarda. Soprattutto in tempi "liquidi" come questi, quasi fumosi ormai, nonostante i fatti del mondo sembrino dimostrare che la crudeltà (la stupidità) dell'uomo è sempre molto concreta, sempre antica e nuova. Il tuo film, più che un messaggio, sembra un invito ad adottare uno sguardo diverso sulle cose.
Non lo so, davvero. Ho a cuore persone, animali e cose, ho letto qualche libro, ascoltato dei dischi, visto qualche film, ma non vado oltre questo. Non sono un intellettuale, non credo nemmeno di essere intelligente. Ho una sensibilità che mi porta a commuovermi, a piangere, per cose piccole, anche lontane nel tempo. Faccio confusione: per me una persona può essere poesia, una bestiola un'opera d'arte. Da operaio inseguivo l'arte e la cultura, da disegnatore hanno preso a interessarmi i contadini, il dialetto, gli operai. Quando scrivo o disegno vengono fuori, incontrollate, esperienze dell'una e dell'altra vita, queste si mischiano, vanno per conto loro. Non ho un metodo di lavoro che si può raccontare o analizzare, sono il primo a non capirci niente. Lo faccio per questo, credo. Sono molto contento di quello che scrivi, mi sorprendono sempre le interpretazioni dei miei lavori. La contentezza e la sorpresa vengono dal non sapere spiegare i perché di quello che faccio.
Più il mondo si smaterializza, diventa digitale e virtuale, più tu rimani legato a una tecnica in cui è fondamentale la materia, la fatica, il lavoro manuale. È un gesto che assomiglia a un'idea. Il corpo, forse, non risponde più come una volta, ma l'idea, magari anche per quello, è sempre più forte, controcorrente. Ci hai mai pensato alla necessità di trasmetterla in qualche modo? Di trasformare l'esperienza del film in una storia di laboratorio, una bottega alla vecchia maniera, che insegni un modo di essere e lavorare, oltre che una tecnica?
A essere sinceri no, non ci ho mai pensato. Anche per manifesta inadeguatezza. La parte creativa come detto non la saprei spiegare, quella tecnica la esaurirei in un quarto d'ora. L'idea però è bella e giusta, tutto quello che si può donare e tramandare è bene che si doni e tramandi. Ci vorrebbe uno spazio, un borgo disabitato con la bellezza intorno, qualcuno che sostenga l'idea.
Cosa pensi del cinema di oggi? C'è qualcosa che apprezzi, che ti fa venire voglia di guardare un film, o ti limiti agli autori che ami da sempre? Nel festival che hai guidato per alcuni anni a Pergola sono passate tante opere fuori dai canoni.
Non penso niente, il cinema del paese è stato chiuso quindici anni fa e non riesco a guardare i film su un monitor. Continuo ad amare il cinema di poesia, la letteratura di poesia, la musica rock indipendente e alternativa, ma gli autori sono sempre gli stessi. Non sono mai riuscito a stare al passo con i tempi, mi sono sempre fermato ai primi amori: Tarkovskij, Angelopoulos, Pavese, De Luca, Screaming Trees, Dinosaur Jr, Ride, Violent Femmes, Pixies, Jesus and Mary Chain, Spacemen 3. Se ne avessi la possibilità andrei al cinema a vedere i film di Nuri Bilge Ceylan. A Pergola ho portato quello che potevo: tanto cinema d'animazione d'autore, Paolini, Celestini, Servillo, Rohrwacher, Kusturica, Sokurov, Wenders... il quarto anno doveva venire Jarmusch, era tutto fatto. Ma poi è venuto fuori il covid e noi, come festival, siamo implosi.
Esiste sempre questa contraddizione fra la risonanza della tua opera tra gli addetti ai lavori, e gli appassionati del genere, e la sua visibilità. Abbiamo perso il conto dei premi che hai vinto in giro per il mondo. E però siamo nell'era del digitale, in cui tutto in teoria è visibile e condivisibile. È proprio impossibile trovare un modo, una finestra, una nicchia virtuale, che renda visibile il tuo cinema e quello di altri animatori-poeti sparsi in giro per il pianeta? O la modalità fruizione è parte stessa dell'opera e del suo significato?
Come premi ho superato i 900, ma sono numeri, significano molto o pochissimo a seconda di come mi alzo dal letto. Il più delle volte non contano niente. Ci sono molti paesi del mondo che da decenni hanno diffuso e valorizzato il cinema d'animazione poetico e d'autore, che salvo rarissime eccezioni si sviluppa e si racconta attraverso la forma breve. In Italia, invece, il cortometraggio viene ancora visto come "palestra" per giovani autori che poi passeranno al lungometraggio, che di fatto sono obbligati a passare al lungometraggio. Non so chi ha inventato questa regola (non scritta, è vero, ma evidente anche ai sassi), non so con quali conoscenze e competenze del e sul cinema d'animazione, non so come sia possibile che un'idiozia del genere perduri. Il cinema, anche quello di nicchia, ha un senso se può essere visto. Ma per far uscire questa forma d'arte dagli scantinati c'è bisogno prima di tutto di umiltà e volontà da parte di qualcuno (non tutti, basterebbe qualcuno) degli intellettuali, degli uomini di cultura, dei media, delle Film Commission, delle case di produzione, dell'industria cinematografica. L'umiltà del riconoscere di aver sbagliato e che non si sa niente di cinema d'animazione. La volontà di porre rimedio, informandosi, coinvolgendo figure competenti, dando infine supporto, dignità e spazio a una forma d'arte riconosciuta nel resto del mondo. Già a scriverlo ci si rende conto di quanto sia difficile, perché il potere e l'umiltà sono in antitesi, perché l'Italia è l'Italia e ogni fetta di torta e ogni briciola hanno su scritto il nome e il cognome.
So che non ami i voli pindarici, che fa parte del tuo dna stare coi piedi per terra, come nonna Zelinda. Ma quali sono le tue prospettive per il futuro? Ci saranno altri lungometraggi? Il lavoro solitario, forse, è diventato troppo difficile, ma quello collettivo, come dimostra "Invelle", può portare grandi frutti.
Al momento sono ancora abbastanza segnato da tutto quello che Invelle è costato e ha significato sul mio corpo e sulla mia psiche. Al punto che da molti mesi non riesco più a disegnare o immaginare storie. Passerà, credo. Nel momento in cui succederà tornerò a pensare a nuovi progetti. Il cortometraggio solo su commissione e senza aspettative, perché di fatto sono tagliato fuori dalle competizioni più importanti, per la regola non scritta di cui ho detto prima. Il lungometraggio è un terreno meno conosciuto e che teoricamente garantisce più visibilità e una continuità di salario. Teoricamente, appunto. E prima di imbarcarmi in una nuova odissea ho bisogno di garanzie. Altrimenti mille volte meglio starsene seduti fuori a parlare con le donne e a giocare coi bambini.