* (Crediti foto: La Biennale di Venezia - Foto ASAC, ph Giorgio Zucchiatti)
Abbiamo intervistato Emma Dante in occasione dell’uscita di Le sorelle Macaluso, oggi, su tutte le principali piattaforme streaming (Sky Primafila, Apple Tv, CG Digital, Chili, Google Play, Infinity, Rakuten Tv, Tim Vision, MioCinema e #iorestoinsala) dopo la presentazione in concorso a Venezia e l’uscita in sala prima del secondo lockdown.
Il film esce in piattaforma in questi giorni dopo un’uscita nelle sale in un periodo, come tutti sappiamo, estremamente critico. Ti aspettavi una simile accoglienza dal pubblico in sala? Cosa ti aspetti, se ti aspetti qualcosa, dalle visioni in piattaforma?
Non mi aspettavo assolutamente l’amore che hanno dimostrato gli spettatori per il film quando è uscito nelle sale, ed è stata una sorpresa straordinariamente piacevole. Il film ha avuto la fortuna di poter uscire nelle sale e questo è stato fondamentale perché i film vanno visti nelle sale cinematografiche, così come gli spettacoli vanno visti a teatro: questa per me rimane una priorità, una sorta di legge naturale. Ora però il fatto che vada in piattaforma rappresenta una possibilità in più, ormai una specie di approdo naturale che offre una possibilità in più a chi non lo aveva visto. Con il teatro è diverso perché il teatro in video è assolutamente vietato, non ha nessuna caratteristica, nessun requisito perché possa questa fruizione possa risultare naturale. I film invece, anche se in una versione sacrificata, con un suono, una fotografia, un’esperienza del tutto ridimensionati, possono comunque trovare nella diffusione in streaming una possibilità in più di resistere, di arrivare, di respirare.
A proposito di esperienza non spettatoriale ma autoriale, come vivi tu, da regista, la differenza tra l’esperienza teatrale e quella cinematografica?
Dal punto di vista del processo ovviamente è molto diverso, perché sono diversi sia il mezzo sia il linguaggio; per me però è molto importante l’incontro e in entrambi gli ambiti il dialogo e l’incontro con altre personalità autoriali è fondamentale. Nel cinema, tra l’altro, sono molte di più. In teatro posso fare anche uno spettacolo minimale, dove ci siamo solo io e gli attori, senza apporti ulteriori, senza luce, scenografia, costume, volendo anche al lume di una candela – metti un fondale nero e lavori sull’astrazione totale, sulla sospensione, sull’oscurità. Al cinema questa cosa non ha nessun senso perché diventa un’installazione. Al cinema c’è sempre un ingombro enorme con cui fare i conti: non puoi fare a meno di considerare lo sfondo, di chiederti che cosa c’è dietro, cosa stai inquadrando, cos’è quel paesaggio cosi presente… Nonostante questa diversità, nel mio approccio ai due linguaggi resta centrale costruire la storia con gli attori e le altre maestranze. Fin dall’inizio c’è un lavoro di concerto molto preciso, molto studiato, non si dà mai niente per scontato: con la scenografa, per esempio, solo lavorando insieme troviamo il linguaggio di quell’oggetto che voglio fotografare e raccontare. Come regista l’esperienza insomma è simile: c’è un incontro, c’è una condivisione e c’è una crescita condivisa lungo il processo creativo.
Sempre restando al legame con il teatro, che sfida rappresentaa partire da un proprio testo pensato e scritto per una forma espressiva e poi trasformarlo per adattarlo a un’altra forma e a un altro linguaggio? Si avverte questo passaggio come una sorta di tradimento? È una preoccupazione che esiste?
Quando abbiamo scritto Le sorelle Macaluso film, io – ancor più degli altri co-sceneggiatori – ho preso subito le distanze dallo spettacolo: non mi interessava raccontare la storia che raccontava lo spettacolo, né sentivo l’esigenza di rispettarlo. C’era un’infedeltà totale. Secondo me l’infedeltà – che non funziona nel modo più assoluto nella vita – nell’arte funziona perché è un gesto di grande libertà che non necessariamente nuoce all’oggetto che stai tradendo. Se io avessi cercato di fare una fotocopia dello spettacolo anche quello ne avrebbe risentito, invece mi sono innamorata di Le sorelle Macaluso film, di questa nuova scrittura, del fatto che queste sorelle avessero un’altra faccia; proprio per questo ho scelto attrici diverse, perché volevo misurarmi con dei corpi che fossero dei paesaggi nuovi, altri. Sia a teatro sia al cinema, io penso al corpo come a un paesaggio, con le sue colline, con il mare, con il suo rapporto con la natura… Quindi si trattava, nel film, di creare un altro mondo, un’altra atmosfera perché erano diverse le facce e i corpi. Ho dunque preso completamente le distanze allontanandomi forse anche troppo e poi, quando ho girato il film, ho ripensato allo spettacolo perché sentivo che mancava qualcosa che là era fortissimo: il senso di colpa. Non c’era nella sceneggiatura forse anche perché sarebbe stato retorico vederlo scritto: nello spettacolo è il motore della vicenda mentre nel film mancava del tutto e l’ho scoperto solo mentre giravamo; grazie alle spettacolo ho allora lavorato per costruire questa sensazione intorno all’ossessione dell’incidente che determina il senso di colpa che blocca le vite delle sorelle, rattrappendole.
Hai detto che lo stretto contatto creativo con gli attori e le attrici è fondamentale nel costruire queste narrazioni dove le tensioni relazionali sono tutto. In Le sorelle Macaluso – nonostante i personaggi protagonisti siano cinque – le attrici che le interpretano nel corso del tempo sono numerose (dodici), come hai lavorato su questo aspetto?
C’è stato un grosso lavoro di casting, un lavoro prezioso per nulla scontato fatto da Maurilio Mangano. Io non volevo delle attrici sosia, non volevo la fotocopia di Pinuccia da piccola e poi da vecchia; i provini sono stati fatti insieme sulla base di una grammatica del movimento e del gesto che io avevo già abbastanza chiara per ogni personaggio. Ognuno doveva seguire un proprio ritmo dei gesti quotidiani, nel modo di truccarsi con una mano o di muovere le labbra leggendo o di passarsi l’altra mano sul viso per esempio, come se fosse una sorta di jam-session di gesti, un concerto che fanno tutte e dodici le interpreti insieme. Abbiamo lavorato alle prove per quattro settimane con tutte le attrici insieme nella casa, non sono mai state separate in modo che tutte le generazioni, stando insieme nella casa, dialogassero davvero in quel tempo e quello spazio sospesi. Questa cosa mi è piaciuta tantissimo, perché ho visto nello stesso istante Lia bambina e Lia anziana che facevano il letto. Ecco, questo ovviamente non l’ho potuto filmare ma in qualche modo è passato nel film.
C’è un grande lavoro sul tempo nel tuo cinema, sull’ellissi soprattutto. In Via Castellana Bandiera lavoravi sulla dilatazione mentre in Le sorelle Macaluso il tempo sembra avere delle logiche tutte sue, una misura più interiore che oggettiva, più memoriale che reale. Sei d’accordo?
La grande preoccupazione che noi avevamo girando erano gli anni 2040, perché non li volevo raccontare come un futuro che non conosco e che non potevo immaginare. Il film inizia negli anni 90 e finisce appunto negli anni 40 del Duemila, che per me sono gli anni della vecchiaia delle sorelle. Questo tempo della vecchiaia alla fine funziona proprio perché nessuno si preoccupa di identificarlo o di definirlo, ma mentre giravano ero subissata di domande da parte di chi necessitava di indicazioni su come dovesse essere questo o quel costume, questa o quella luce, questo o quel dettaglio... E io ero totalmente impreparata, perché per me quel capitolo era connotato da un tempo indefinito da immortalare per sempre come tempo del commiato. La soluzione a cui ho pensato per far comprendere questa mia non ostinazione nel descrivere un tempo che non conoscevo, e che non volevo conoscere, è stata avvicinare il mare alla casa. Una cosa fatta in post-produzione, come effetto speciale, perché l'idea era di togliere un po’ di cemento attorno alla palazzina e restituire spazio a una natura che si rimpossessava legittimamente del suo spazio. Questo ha reso il finale un po’ più favolistico senza il bisogno di dare altri dettagli non raccontabili per me; l’idea del mare che si allunga e si riprende il suo spazio è così possibile, e così giusta, da diventare accettabile senza il bisogno di chiedersi altro su quel tempo preciso.
E poi naturalmente c’è lo spazio. È facile legare questa cosa alla matrice teatrale del suo lavoro ma a me pare ci sia molto altro, molto di più, un’attenzione visiva ma anche narrativa del tutto speciale soprattutto nel dialogo tra spazio chiuso e spazio aperto che sono messi in forma in modo molto cinematografico. Per esempio, in Via Castellana Bandiera la strada è caratterizzata dalla sua mutevolezza dimensionale che si oppone all’interno statico delle auto; ma anche la casa di Le sorelle Macaluso, che apparentemente resta sempre uguale confidando il suo cambiamento al segno lasciato dal tempo e dal vissuto, comunque dialoga con l’esterno e alla fine si trova trasformata. Cosa ne pensi?
Ecco la strada di Via Castellana Bandiera, come il mare di Le sorelle Macaluso, non c’era in sceneggiatura. Lo spazio che occupiamo – e in questo il cinema è straordinario, perché lo può mostrare – è deformato dal nostro ingombro, dall’ingombro che rappresentiamo noi con le nostre cose, i nostri oggetti, i nostri mobili, i nostri libri… Il mondo è pieno di noi, straborda della nostra presenza, quindi questa idea di restituire al mare qualche cosa che gli abbiamo tolto, come l'idea di consentire alla strada di allargarsi in modo tale da rendere evidente che potrebbe contenere e far passare tutti, è un po’ come dare forma alla necessità di ridimensionare la nostra prepotenza e il nostro ingombro. La strada nella realtà è come si vede alla fine del film, e l'idea di lavorare sulla dilatazione (come sull’avvicinamento del mare) è venuta, come dicevo, mentre giravamo. Per altro, in Le sorelle Macaluso accade la stessa cosa con la casa: alla fine del film è come l’ho trovata quando l’abbiamo scelta. Quindi entrambi i film finiscono in luoghi che si ritrovano sgombri dalla nostra presenza, dalla mia, da quella della troupe, ma anche sgombri dalla mia storia, dalle mie parole, dai miei personaggi. E questo mi piace, perché lo spettatore sente che il film libera lo spazio, gli restituisce la sua libertà ponendo fine alla prigionia del vissuto e restituendogli la sua anima. Quando il cinema riesce a essere cosi liberatorio funziona. D’altra parte quando noi svuotiamo le nostre case sono dei cimiteri, non ci assomigliano, riacquisiscono la loro identità primigenia.
In Le sorelle Macaluso gli oggetti hanno un ruolo centrale anzi la relazione tra gli oggetti, il tempo, e il segno che tutto questo lascia su di loro. E in mezzo agli oggetti ci sono i personaggi che in una costruzione corale come questa sono il perno del racconto e chiamano in causa legami molto difficili da restituire e da equilibrare. Cosa ci puoi dire in proposito?
Ho lavorato moltissimo con le attrici nella casa non arredata insieme alla scenografa. Anzi, capivamo come arredarla proprio provando, esattamente come quando entri in una casa e la arredi poco per volta, lasciando le cose in un certo modo per un po’ e poi gli cambi posto perché senti quell’esigenza. Questo lavoro ha contribuito a creare la tensione relazionale tra i personaggi, perché ognuna ha il suo punto di vista sullo spazio e la sua idea su dove posizionare i mobili e gli oggetti. Il mobile che la piccola Antonella chiama «il mobile del mare», per esempio, li è stato posizionato e li è rimasto per ottant’anni di vita, come se fosse il saggio della casa, quello che, con il suo mare e le sua palme, le ha viste tutte. Non ho mai capito come si fa a vivere in case già ammobiliate e sentirsi veramente a casa propria; quando mi è capitato, ho percepito quelle case come dei corpi estranei dentro i quali io mi muovevo in maniera molto goffa, quindi il fatto che invece le sorelle Macaluso abbiano deciso insieme dove stavano i mobili credo abbia contribuito in modo fondamentale a far si che la casa diventasse sorella delle sorelle Macaluso. E cosi ad aiutarle, a proteggerle, a nasconderle, ma anche a creare i cortocircuiti, a rompersi senza mai essere stata aggiustata. Una volta, durante un incontro con il pubblico a Milano, qualcuno mi chiese – come spesso capita – perché nel film ci sono sempre e solo le donne (una domanda alla quale fatico a rispondere, perché se fosse stato il contrario probabilmente nessuno lo chiederebbe), e a quel punto un signore intervenne dicendo: «Se ci fosse stato un uomo questo film non sarebbe mai stato cosi forte perché qualcuno avrebbe aggiustato tutti gli oggetti della casa. Ci sarebbe stata una manutenzione ordinaria delle cose che avrebbe reso il film stesso ordinario e non speciale come è». Mi è sembrata straordinaria questa idea che senza gli uomini non c’è manutenzione e la vita può scorrere con il proprio tempo, lasciando i suoi segni: se una maniglia si rompe quella maniglia rotta resta, divenendo parte di questo corpo che è la casa e determinando la sua identità specifica. È quella maniglia e non un’altra, è quella casa e non un’altra.