Un altro (grande) film di Gianni Amelio, Hammamet, un'altra lunga intervista, nata da un incontro a Milano, come era già avvenuto per La Tenerezza. Una conversazione in cui il regista calabrese analizza il suo ultimo lavoro in tutti i suoi aspetti, racconta alcune sequenze e ci svela quali sono le sue scene preferite. Ma si parla anche di Douglas Sirk, di Colpire al cuore, di film sciasciani anti-sciasciani, di una telefonata di Sergio Staino... Ne pubblichiamo alcuni estratti. L'intervista completa la potrete leggere sul numero 591 di Cineforum, in distribuzione nel mese di febbraio.
In Hammamet c'è il melodramma, il noir, o forse il thriller, perfino un po' di western, c'è il potere di fronte alla sua fine, il rapporto tra padri e figli (una figlia, soprattutto), c'è il mito, la tragedia... Poi c'è anche Craxi. Che sembra quasi un pretesto. O comunque solo un punto di partenza.
Vogliamo dire che c'è un paradosso, anche? Il film ha cercato e ottenuto una somiglianza fisiognomica pressoché totale, e nello stesso tempo si è completamente allontanato dalla cronaca, dalla cronistoria, anche dai fatti così come sono avvenuti, a parte forse la sequenza iniziale, il congresso del Psi. L'assenza di nomi tende a rendere tutto allegorico più che realistico. Quindi parliamo di Sofocle, Elettra..
...che cercava vendetta nel nome dei padre...
...e scendendo per li rami, senza scendere troppo, arriviamo al Re Lear. E arriviamo anche al cinema, con una certa ricerca dei titoli, non dico maliziosa ma quasi. Il film Out of the Past, in italiano è Le catene della colpa, e di colpe qui si parla.
Il passato non lo puoi cancellare.
Sì, e le colpe esistono, per confessione stessa del protagonista. Il Presidente non nega di aver commesso dei reati. Quando il ragazzo che lo riprende con la telecamera gli chiede se su di lui pendono delle accuse, lui risponde, chiaro e tondo, che sì, ci sono due condanne passate in giudicato.
Scendendo da un ramo all'altro arriviamo al cinema non citato, come Colpire al cuore...
Arriviamo al cinema che ho fatto io e ai temi che mi hanno appassionato negli anni. Un amico regista una volta mi ha detto che lui non lavora per il successo, ma per le retrospettive. Questa cosa mi ha sempre fatto ridere e un po' mi fa riflettere, quando scopro che riscrivo delle storie che ho già scritto e rappresento dei personaggi che ho già rappresentato. Cambio la veste, ma quello che hanno dentro resta, coniugato in modi diversi. Il film che ha dato la linfa a Hammamet è stato Colpire al cuore. Non avrei mai fatto Hammamet senza il personaggio di Fausto. L'ho scritto, anche: vorrei che non fosse considerato un film su Craxi, nemmeno un film sul potere caduto, vorrei che fosse considerato un film in cui c'è qualcuno che cova una vendetta, che può avere tante cause, tante radici perdute chissà dove. In Colpire al cuore non si capiva fino in fondo se era il problema del terrorismo a motivare il gesto finale del figlio che denuncia il padre. C'era anche molto di Edipo, quando lui vede il padre di nascosto nel corridoio dell'università, insieme alla ragazza, quando guarda il padre e l'allievo camminare bisbigliando nel giardino...
Anche in Hammamet finiamo in un giardino.
Sì, c'è in tutte e due un giardino nel quale avvengono dei “delitti,” di diversa natura. Il film ha un grimaldello in Fausto. Vogliamo parlare, più rozzamente, di espediente narrativo? È l'espediente che mi permette di non fare il film che ha bisogno delle didascalie per riconoscere i personaggi. Ho voluto un Favino più craxiano di Craxi, e però ho centrato il conflitto in altri termini.
Forse però non è così semplice per lo spettatore capire che non è un film su Craxi, visto che Craxi è presente quasi in ogni inquadratura, letteralmente incarnato. Perché scegliere un personaggio così ingombrante? Forse era meglio Cavour. All'inizio ti avevano proposto un film su di lui, sul suo rapporto con la figlia.
Io non trovo che la figura del Presidente sia ingombrante. La definirei drammaturgicamente forte. Le figure inerti ti danno meno spunti di racconto, di partecipazione. Io non ho mai considerato Hammamet come un film che mettesse fuori causa Craxi, con i suoi drammi politici e personali. Semplicemente ho voluto che ci fosse qualcuno a stimolarlo a tirarli fuori. E quindi non credo che ci sia bisogno di una spiegazione per entrare nel conflitto che il film racconta. C'è un uomo che si nasconde in una casa in mezzo agli ulivi; c'è un ragazzo che di notte vi penetra rischiando la pelle, perché la villa è protetta da militari armati; questo ragazzo deve consegnare una lettera di accusa; poi l'uomo si appassiona al ragazzo, e noi spettatori sappiamo che il giovane ha con sé una pistola, che probabilmente userà. Noi non la vediamo, perché se la vedessimo, saremmo sicuri che da un momento all’altro verrebbe usata.
Non la vediamo, ma il Presidente ce la ricorda, facendoci notare lo zainetto che il ragazzo non lascia mai. Lui sa.
Esatto, ci ricorda ciò che non riesce ad allontanare da sé, il senso della morte. Lui è una persona che sta lentamente suicidandosi. Io così leggo Craxi. Il Craxi della realtà. Se Craxi non è tornato a Milano per farsi operare, aveva certamente messo in conto che restare in Tunisia era morire. E dato che se ne rendeva conto, il suo non era un avvicinarsi alla morte? Hammamet è anche la storia di un suicidio.
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Nel film gli ex potenti sono maestri della sfumatura, dell'ironia. I giovani invece sembrano fragili, schiacciati dal peso dei padri. È una cosa molto evidente anche sul piano della recitazione. Immagino sia una cosa voluta.
Voluta e cercata, scegliendo già un certo tipo di attori, allontanando tutto ciò che fosse simile al gioco meraviglioso e grandioso di Favino. Non volevo che gli altri fossero “alla pari”, anzi come schiacciati da lui. Non sono così sprovveduto come direttore d'attori da non chiedere la recitazione che mi serve. Anche la balbuzie l'ho aggiunta e l'ho data a due personaggi. Vincenzo ha paura di parlare al Presidente, ma trova il coraggio di essere aggressivo nel momento della gloria del suo capo e poi mette nero su bianco in una lettera le sue accuse fondamentali su quello che lui sta facendo, sui suoi comportamenti illegali, enumerati in una litania che sembra tratta dalle cronache o dalle voci di quegli anni: vuoi la pensione? Paga! Vuoi l'appalto? Paga! Ridotto all'osso, era questo il metodo socialista craxiano degli anni '80, come lo avvertiva l’uomo della strada.
Quel famoso contesto di cui qualcuno lamenta la mancanza, ma che se ci fosse ridurrebbe il film a una cronaca giudiziaria.
Trovo che qualche volta più puntualizzi una cosa, più la indichi con un dito, più la sottolinei, la declami, e più rimpicciolisci il quadro. Il problema del Presidente in Hammamet è il rapporto spregiudicato con la politica e con la sua stessa vita. Il potere usato in un certo modo. Forse è perfino inevitabile usarlo in maniera sbagliata quando si è accumulato con certi metodi. La mia esperienza, più modesta e lontana dalla politica, mi fa dire che il potere “innocente” non esiste. Già il fatto che si chiami “potere” mi mette in guardia.
Craxi nel film diventa un personaggio tragico. C'è qualcosa di profondamente umano, che può avere a che fare con Craxi, come con Re Lear o con un qualsiasi leader e sovrano di fronte alla morte. Favino sembra quasi combattere contro la maschera, per far emergere da dentro verità che altrimenti sarebbero invisibili e che vanno al di là di Craxi. E credo c'entri anche la regia, il modo in cui rimani a guardarlo oltre la battuta iconica, il gesto caratteristico, oltre la maschera.
Questo è dovuto all'impostazione narrativa, più che alla grandiosa capacità di recitare che possiede Favino. Io la parola “regia” la uso poco. Preferisco “impostazione narrativa”, perché mi sembra qualcosa di più concreto. Comunque è la volontà di raccontare in un certo modo, mostrando delle cose e dicendone altre. Nascondendo magari un nodo che sembra fondamentale e sottolineando un dettaglio che invece è rivelatore. Un esempio: si mangia molto in questo film. All'inizio ci sono dei bambini arabi che si ingozzano di spaghetti, ed è come un preludio a quello che manca al Presidente: la possibilità di mangiare tutto quello che vuole. Perché per lui il cibo, quel cibo, è veleno. La gioia, la voracità con cui i bambini si sfamano, sono la condanna del protagonista potente. Da una parte scugnizzi arabi felici di un semplice piatto di pasta, dall’altra il sovrano malato che ruba dal piatto degli altri. Invece di mostrare altri tipi di furti, con tante spiegazioni e bacchettate - come ha preso i soldi per il partito, come ha speso i soldi pubblici - io gli vedo rubare della pasta, dei dolcetti proibiti…
(...)
Il cinema dovrebbe essere sempre questo: c'è il particolare, la cronaca, e poi c'è l'universale.
Io credo che in Hammamet ci siano tutte e due le cose. Io non sento la necessità di scrivere nella parte bassa dell'inquadratura il nome di un personaggio realmente esistito o esistente per farlo riconoscere. Faccio un film, non un reportage televisivo.
Perché tutto quel cinema dentro il tuo film? La televisione sempre accesa? Craxi ne sembra infastidito, si allontana fino a non sentire più i dialoghi. In un'altra occasione cambia canale. E si tratta di film importanti: Bend of the River (Là dove scende il fiume ) di Anthony Mann, Out oh the Past (Le catene della colpa) di Jacques Tourneur, All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk.
Parliamo di film che hanno in qualche modo una parentela con gli stati d'animo che si raccontano. Quando si fa una citazione, non la si fa per caso. Se mostro un televisore acceso, tanto vale metterci qualcosa che abbia un senso, anche per illustrare un rapporto tra due persone. Io non spendo molte parole per raccontare qual è il legame personale, intimo, tra il Presidente e sua moglie, però vedo il Presidente che si siede accanto a lei sul divano e cambia canale senza chiedere il permesso, senza guardarla e senza che lei protesti. Quel gesto dura cinque secondi ma racconta che cosa passa fra i due. Racconta due caratteri diversi. Lei sta guardando una storia che ha a che fare con la loro vita, Le catene della colpa, dove c'è un amore anche torbido, come spesso sono i rapporti immaginati da una moglie, in relazione a un marito latitante o esule, sicuramente latitante dal letto coniugale. Il Presidente cambia canale e improvvisamente compaiono delle ballerine, le “spintarelle”... È un modo non scolastico di rappresentare dei caratteri.
(...)
Quindi ti tiri fuori dal dibattito su Craxi latitante o esiliato.
Se vuoi la risposta te la do, ma non mi sono mai posto il problema di raccontarla. Per me lui non è né un esiliato né un latitante, ma un contumace, un tale che non si presenta al processo. Perché latitante è qualcuno di cui non si conosce il domicilio, un esule è uno che ha deciso di ritirarsi dall'agone. In realtà il processo si poteva celebrare anche a Hammamet, perché di Craxi si conosceva indirizzo, numero di telefono, tutto...
...ma non avrebbero potuto estradarlo.
Esatto. Quindi non conveniva ai giudici andare da lui. E lui ha giocato molto su questo. Ma, dal momento che le parole si usano alla leggera, esule o latitante suonavano meglio di contumace.
I suoi discorsi più politici sono in 4:3.
Perché volevo “virgolettarli”. Alcune sono parole che non condivido affatto. Quando dice che la politica ha un costo come la porchetta. Quando chiama in correità il maggior partito di opposizione. Le sappiamo queste cose, è inutile che io faccia il bignami. Quale può essere il giudizio da parte mia? Devo dire che sbaglia? Certo che sì. Dire che ci sono tanti assassini che hanno sparato come me, non fa di me un innocente. Questo lo sapeva pure lui, grande politico navigato.
Ci sono scene che ami in modo particolare?
Una è la scena con la figlia che gli taglia i capelli. Lì c'è il mio modo di scrivere i dialoghi dei cosiddetti film ideologici, quelli “a tema”, sciasciani. Io ho fatto un film sciasciano anti-sciasciano, Porte aperte, che viveva d'altro, che viveva più dell'assassino che del giudice, e anzi è proprio grazie all'assassino – un pretesto in Sciascia - che il giudice ha l'evidenza che ha. Mi piace quello scambio di poche parole, quando il Presidente dice: “Devi convincere tuo fratello a fare ancora un figlio, perché se te ne muore uno, hai l'altro…”. Il cosiddetto cinema civile classico l'avrebbe cancellato con la matita blu. Quel mio lontano Porte aperte è tutta un'altra cosa rispetto a film come Todo modo o A ciascuno il suo, dove una certa “pesantezza” che c'è nei pamphlet di Sciascia è portata all'estremo. Sciascia sussurrava? Io scendevo ancora più giù di tono.
L'altra?
Quella del sogno. Non il sogno finale, sul Duomo, l'incontro col padre, quello che hanno definito felliniano, e non capisco il perché. Sembra felliniano?
No.
Infatti, certo che non lo è. Uno che cita Sirk, Mann e Tourneur, perché dovrebbe negare di aver citato Fellini?
Quindi stiamo parlando del sogno raccontato da Craxi.
Sì. Questo è felliniano, nel senso che è un vero sogno che ho fatto io mentre stavo scrivendo la sceneggiatura. Non ambientato in Parlamento, ma in un teatro dove mi consegnavano un premio: io ricevo il premio dalle mani di una persona, la guardo e comincio a insultarla davanti a tutti, rendendomi conto che mi sto dando la zappa sui piedi, perché dico cose non dimostrabili, dico che ha rubato, che ha tradito, che ha nascosto chissà quali beni all'estero… In quel sogno c'era gente di cinema, tutto il cinema italiano. E somiglia al sogno che lui racconta, ma ambientato in Parlamento, con lui che se ne va, poi è costretto a tornare indietro, e vede tutti gli altri che gli sorridono, gli prendono la mano, gli dicono: “Bravo, hai detto la verità, hai avuto coraggio…”.
Qualche volta ti sei divertito a dividere i tuoi film in due categorie: “riusciti” e “importanti”. Tra i riusciti, quelli apprezzati da tutti, c'è ad esempio Il ladro di bambini. Tra gli importanti c'è anche quello che io ritengo sia il tuo film migliore in assoluto, Così ridevano.
Sono d'accordo
Hammamet è più riuscito o importante?
Bisogna aspettare. È un film importante. Ma non so se è anche riuscito, ho bisogno degli spettatori per capirlo.
Io credo sia tutte e due le cose.
Me lo auguro. Ma mi rendo conto che è un film pieno di trappole, che possono scattare contro di me, contro il mio modo di fare cinema. Chi mi ha seguito nel corso degli anni, ha già cominciato ad essere prevenuto il giorno in cui si è saputo che avrei fatto un film intitolato Hammamet: “che cosa c'entra Gianni Amelio con Craxi?”. Ricordo i tempi in cui Bettino Craxi propose la modifica della scala mobile, cosa molto criticata dal Pci. Io allora non ero un militante, ma come tanti lo ero per un’esigenza culturale più che politica: si era dentro il Pci perché non ci si voleva far rappresentare dalla Dc e nemmeno dal Psi. La riforma della scala mobile provocò una specie di rabbiosa rivolta nel popolo di sinistra. Io ero insieme a Nanni Moretti sul raccordo anulare perché qualcuno aveva deciso di mettere insieme coppie di registi per filmare la manifestazione di protesta in piazza San Giovanni. Mi ricordo che filmai l'arrivo dei pullman, sulla parte nord del raccordo. Ero convinto che Craxi avesse torto. Poi, il giorno dopo, Luciano Lama scrisse invece che aveva ragione. Fu l'unico a prendere le distanze, anche contro la piazza. Ecco, quando mai avrei immaginato che un giorno sarei entrato addirittura in casa sua, tra gli ulivi di Hammamet? Questo non è solo il tempo che passa, che ti modifica, è anche una necessaria coscienza dei tempi, di come cambiano anche il sentire, il vedere, l'accostarsi ai problemi. Io sono arrivato quel giorno a fare quella battuta, “invece di Cavour facciamo un film su Craxi”, con un azzardo, che poi ho sentito come un dovere civile. Ieri sera stavo rientrando a casa ed è suonato il telefono. Era Sergio Staino, commosso, che mi dice: “Che grande film hai fatto! Che errore è stato colpevolizzare lui e solo lui. Quanto ci pesa e quanto ha pesato sulla politica successiva lo squallore delle monetine davanti al Raphael”.
Ci siamo ancora dentro.
Certo. Ma sentirsi dire queste parole da Staino...