Quando decide di raccontare la propria infanzia, Bergman non la rievoca fedelmente ma la reinventa. Colloca l’ambientazione vent’anni prima (nel 1907), “elimina” il fratello, trasforma il padre pastore in un patrigno usurpatore, il vescovo Vergerus, un demone meschino che condensa in sé tutta la prepotenza, violenza e crudeltà dei dogmatici religiosi che il regista ha sempre odiato. Ma soprattutto, in Fanny & Alexander raggiunge un’armonia magistrale fra il respiro del grande romanzo ottocentesco e la narrazione visionaria, dove nella realtà si insinuano continuamente i fantasmi dei sogni, degli incubi e dei desideri, così come la magia dei sortilegi, nell’annullamento di ogni linea di separazione fra il reale e la fantasia. Il film lascia intravedere nella sua filigrana anche i riflessi di molti film bergmaniani precedenti, non semplici autocitazioni ma spettri di un immaginario che si misura con i propri démoni illuminandoli in forme e temporalità diverse.