Quello del sovrannaturale, mescolato all’occultismo, all’onirismo e in senso più ampio all’eterna contrapposizione tra scienza e illusione, conoscenza e inesplicabilità, realtà e finzione, è uno dei grandi temi ricorrenti del cinema di Ingrid Bergman. Il volto, in questo senso, è uno degli esempi più emblematici e affascinanti. Nonostante non abbia mai raggiunto la stessa notorietà di altri suoi film più celebrati, infatti, è quello che apre la strada a opere di grande visionarietà come Il settimo sigillo e L’ora del lupo. Al centro, una machiavellica riflessione dialettica – ispirata all’opera drammaturgica Magia di G. K. Chesterton’s e che Bergman portò precedentemente in scena – volta a mettere l’una contro l’altra l’attrazione tipicamente umana verso l’irrazionale, la magia e l’esoterismo a cui si contrappone l’eccesso di raziocinio, atteggiamento antitetico e altrettanto umano. A sessant'anni dalla sua realizzazione, Il volto continua a essere un esempio di perfezione dell’arte affabulatrice di Bergman, e incunabolo per alcuni spunti che verranno ripresi e approfonditi in seguito. In generale, colpisce l’approccio moderno e senza tempo con cui Bergman, attraverso un uso serratissimo dei dialoghi e l’impianto teatrale di una messa in scena gotica, riflette sui principi di verità e conoscenza, facendo de Il volto un film che continua a essere attualissimo anche oggi se solo pensiamo al ruolo sempre più preponderante che discipline e medicine alternative assumono all’interno della nostra società apparentemente così materialista, ma in realtà senza punti fermi. «Uno vede ciò che vede e uno conosce ciò che conosce», sentenzia ad un certo punto la vecchia megera che accompagna Vogler. E che, ora della fine, proprio quando pensiamo che tutto sia solo una grande illusione, apre le porte di un al di là occulto a cui in fondo anche Bergman – e noi con lui – piaceva credere.