Come in uno specchio è una guerra di posizione. Quattro personaggi, un unico luogo (l’isola di Fårö, scoperta durante la preparazione del film e poi dimora del regista), un incrocio di conflitti che spoglia il racconto di ogni sovrastruttura narrativa e stilistica (nessun flashback, nessuna digressione, nessuna luce artificiale) per distillare le relazioni tra i personaggi e il loro rapporto con l’ignoto.
I protagonisti sono tessere di un mosaico; la famiglia (trinità sghemba) è la rappresentazione di un inconciliabile conflitto. Il padre, scrittore narciso, è incapace di amare e concentrato sul proprio bisogno di celebrazione. La figlia Karin, dimessa da un istituto psichiatrico, rappresenta il lato irrazionale e perverso nello smascheramento di ogni illusione. Il figlio Minus è terrorizzato dal proprio istinto.
In quest’isola brulla, illuminata da una luce perennemente crepuscolare, la pazzia di Karin fa da detonatore per le ipocrisie; rompe la maledizione di vedere, secondo le parole di San Paolo, «come in uno specchio, in maniera confusa»; impone una brusca verità, nuda, deformata dalla presenza allucinatoria del divino. Nel confronto finale tra padre e figlia si opera una cesura: Come in uno specchio è allo stesso tempo la summa dei film precedenti di Bergman (qui, sebbene in forma fantasmatica, c’è ancora uno scheletro di melodramma) e il seme della fase radicale di Luci d’inverno e Il silenzio.
Martin, marito di Karin, è un medico, anima razionale incapace di controllare la percezione disperata di Karin, incerta se le voci nella sua testa siano solo follia o tracce di divinità. Sarà in questo decifrare, in questa continua ricerca, nell’ossessionata disperazione, che fiorisce l’ultimo Bergman: un cinema di laceranti scissioni che attraversa Dio con lo sguardo saldamente piantato nell’umano.