«Non esistono guerre onorevoli e guerre vergognose. Tutte le forme di azione bellica e di violenza, indipendentemente dalla causa in nome della quale condotte, sono vergognose e deleterie per l’umanità». Anche Bergman ha avuto il suo Sessantotto. Non è solo l’anno di uscita di questo trentesimo lavoro a darne riprova: la guerra in Vietnam dilaga in escalation militare e induce, quand’anche se ne volesse prendere le distanze, a scomode prese di posizione. Il Golgota dei protagonisti Eva e Jan, eremitici musicisti che scelgono l’isolamento per sfuggire al conflitto, condensano il pensiero bergmaniano nell’antitesi della persona e nelle dicotomiche ricezioni della tragedia. Al sentimento materno di lei, che preserva il barlume onirico dopo che gli eventi ne hanno intaccato la fibra, si contrappone la progressiva e mostruosa metamorfosi di lui, imbelle ed egoista, spinto via via al tradimento e all’omicidio. La lanterna magica è posta nel suo orrifico rovescio: un delirio senza scampo, senza colore e senza musica, dove fin dai titoli di testa un rintocco di campana fa pendant a indistinguibili voci radiofoniche, frastuono di aerei, raffiche di mitra. Vanificata è l’arte in ogni effigie spirituale: persino il cinema documentaristico (o presunto tale) si fa mistificazione, a scapito dell’umana lealtà. Ne La vergogna, il suo titolo più lucidamente contraddittorio, il maestro espone tale pessimistica considerazione lungo un arco narrativo da lui stesso definito sbilanciato, nella cui rappresentazione dell’Apocalisse – scriveva Tullio Kezich – la realtà trascende l’artificio. E in un epilogo ineluttabile torna il silenzio di Dio: il dantesco viaggio alla deriva d’una barca, attraverso un mare di cadaveri, si sospende nel verbo dell’utopia, prima che in Passione, l’opera immediatamente successiva, l’immaginario torni a dotarsi di sfolgorante bellezza.