Dresda, 1937. Circa. Elisabeth porta il nipote Kurt alla mostra di arte degenerata, esposta in città, con intenti derogatori e didattici, fin dal 1933. Tra Dix, Kokoschka, Grosz, Nolde e tanti altri, una guida evidenzia le ragioni per cui il modo di guardare la realtà attraverso il filtro deformante dell’irregolarità psichica o fisica nuocerebbe alla salute della Nazione; prosegue poi con lo sberleffo ai danni dell’arte astratta, di fronte a un pannello dove spiccano Mondrian e Kandinsky “questo, in realtà a me piace”, dice la zia e, non a caso, quando di lì a poco verranno a prelevarla per portarla in un ospedale psichiatrico, il pattern del suo abito sembra ripreso proprio dalle opere del pittore russo. Specularmente, quando la guerra è finita, e Kurt, cresciuto senza più la guida geniale di Elisabeth, si ritrova all’accademia di Dresda, l’arte espressionista e quella cubista sono additate come modello negativo, lontane dalle necessità della nuova nazione socialista. Su questa equazione si potrebbe fermare il parallelismo, e si potrebbe già avere qualcosa da ridire sul peso dei giudizi.
Ma invece, più avanti, quando, passato all’ovest pochi mesi prima che venga costruito il Muro, Kurt si rifugia a Düsseldorf con la sua amata Ellie, durante un open day all’Accademia dove intende iscriversi, opere e performance degli artisti non sono che repliche inamidate, svuotate, quando non ridicolizzate, di lavori ed eventi reali, che un autore lo hanno o lo hanno avuto. Non passa nessuna energia, nessuna vitalità, nessun granello di rivoluzionarietà, tra questi studenti replicanti, possono tutt’al più sembrare delle drôleries a margine di una pagina bianca – manca tutto il sistema di relazione con le altre arti, musica e cinema in primis –, o le figure nonsense di un epigono di Bosch. E d’altronde, l’accademia è diretta da una persona che, per costume, opere e vicenda biografica, compendiata per sommi capi, è in tutto e per tutto Joseph Beuys, ma che per ragioni inspiegabili – se non questioni di diritto d’autore – nel film è chiamato Antonius van Verten. E, quando Kurt, spronato da questo surrogato dell’illustre autore di Difesa della Natura, trova finalmente una strada autonoma nell’impiego del medium, quella pittura che non era mai riuscito ad abbandonare, e comincia a dipingere utilizzando ritagli di giornale, foto ricordo e ritratti da passaporto del Photoautomat (questi sì, opere senza autore), si rivela a propria volta un avatar, quello di Gerhard Richter, uno dei giganti del secondo ’900.
Questa non è la sinossi di Werk ohne Autor di Florian Henckel von Donnersmarck, sono solo tre momenti del discorso sull’arte che l’autore de Le vite degli altri vorrebbe portare avanti in questo film: è il resoconto di solo alcuni degli aspetti per i quali il film è fortemente criticabile. Film che, nella sua durata mastodontica di 188 minuti è, in realtà assai fruibile, quando non godibile; non fosse altro che ci si rende conto, dopo la prima ora, di essere entrati in modalità binge watching, perché Werk ohne Autor sembra capitato sul grande schermo per errore, avendo la segmentazione temporale, i modi narrativi, e per molti versi il cast del prodotto televisivo europeo, e forse nemmeno di quello più alto. E, in ogni caso, anche come televisione, l’eventuale funzione didattica/didascalica va a farsi benedire proprio per le ragioni sopra elencate (e anche per errori cretini, come Mozart dato per morto prima dei 30 anni), ed è un peccato, perché, perlomeno il soggetto, dello stesso von Donnersmarck, si sarebbe potuto prestare a trattamenti ben più potenti.
Schafe können sicher weiden “le pecore possono pascolare tranquille”, dalla cantata BWV 208 di Bach, suonata al pianoforte dalla zia Elisabeth poco prima di essere prelevata da casa per essere condotta alla clinica per malati mentali e portatori di handicap, anticamera operativa del progetto eugenetico nazista di sterilizzazione ed eliminazione, galleggia e ricorre in forma di variazione nella partitura di Max Richter . Le pecore che pascolavano tranquille erano i ragazzi della generazione di Elisabeth stessa, irretiti nelle maglie del Nazionalsocialismo, senza capire che il potere li stava castrando, metaforicamente quando non fisicamente, e continuerà a farlo anche finita la Guerra. Eppure questa zia picchiatella (la bellissima Saskia Rosendhal), che si fa suonare un cluster di clacson dagli autisti della corriera e si mostra nuda al nipote di sei anni, col suo monito a non distogliere mai lo sguardo dalla verità, “quando una cosa è vera è bella”, è il timone estetico di Kurt/Gerhard. E si può perfino perdonare la macchina da presa di von Donnersmarck, che non esita a seguirla dentro la camera a gas, e, di fronte all’ oscenità assoluta, non rinuncia alla sua verità, alla sua fragilità, alla sua bellezza. E infatti, fino a lì, siamo intorno al 50° minuto, il film sembra poter avere una diversa dignità, un diverso pudore narrativo.
Ma poi, "negli episodi seguenti" ci si infila nel solco delle (ormai tante) produzioni ZDF sulla generazione dei figli senza padre, senza che ci sia il rigore di uno, come Edgar Reitz, che a quella generazione appartiene, e che un lavoro di rievocazione del clima artistico di quegli anni lo ha fatto, quando era ancora possibile fare cinema per la televisione. Ma se Die Zweite Heimat lo si andava a vedere in sala, due episodi per volta, questo Werke ohne Autor, che pare sia già stato candidato a rappresentare la Germania agli Oscar, lo si potrà un giorno vedere con un occhio sì e uno no, sul divano, in un giorno di pioggia, lamentandosi magari del senso di insoddisfazione che lascia quello che è forse l’unico granello di intelligenza registica superstite, verso il finale: se la contemporaneità va in vario modo verso opere senza autore, von Donnersmarck lascia i delitti (contro l’umanità) senza un responsabile. Solo l’arte, quella di Kurt/Gerhard riesce a svelare e a nascondere al tempo stesso, schermata dietro al blur, alla sfocatura generata da una mano di bambino, la verità. Certo, il mistero dell’arte di Richter rimane intatto, velato, dietro l’inerzia della macchina da presa di von Donnersmarck, che almeno (al contrario di Schnabel nel pessimo, ennesimo, inutile biopic su Van Gogh) ha il pudore di non rincorrere l’equazione impossibile tra "gesto pittorico" e "gesto cinematografico".