Con Il ragno rosso Marcin Koszalka approda al cinema di finzione, si è detto, ma in realtà non fa che continuare il lavoro che prosegue da anni con un cinema che è sempre stato, dal punto di vista stilistico, piuttosto “messo in scena”. Sia come direttore della fotografia che come regista, con i documentari, i videoclip, i cortometraggi, Koszalka ha sempre esercitato sicuro (a volte quasi spavaldo) una poetica narrativa e visiva marcata creando un universo immaginario in cui dominano toni lividi e atmosfere cupe, movimenti di macchina audaci che spingono spesso nella direzione del trompe l’oeil, molti punti di vista aerei che si pongono dialetticamente con i close up che sottolineano gli oggetti, le forme, i dettagli, i volti.
Che si tratti di dialogare con la sorella dopo la morte dei loro genitori (Let’s run away from her), o di raccontare la vita di un lavoratore del forno crematorio (Śmierć z ludzką twarzą/Death with Human Face), che si metta di fronte a qualcuno che ha deciso di donare il proprio corpo alla scienza dopo il decesso (Istnienie/Existence) o che si occupi della possibile immortalità di un celeberrimo alpinista (Deklaracja niesmiertelnosci/Declaration of Immortality), la sua spiccata personalità visiva gli serve in fondo per mettere in immagini il racconto di un mondo coerente in cui domina costantemente un’unica gigantesca ossessione: la morte.
E anche con Il ragno rosso prosegue con fermezza nella costruzione del suo discorso filmico, esistenziale, politico, spingendo con forza su un formalismo ricercato. Ispirato a un fatto di cronaca, il soggetto si sviluppa intorno agli omicidi compiuti da una coppia di serial killer nella Cracovia degli anni Sessanta e da lì prende spunto per raccontare la storia di Karol, giovane provetto tuffatore di buona famiglia, che, quasi per caso, scopre l’identità dell’omicida che occupa le prime pagine di tutti i giornali; dopo essere riuscito a conoscerlo, Karl instaura con l’uomo una strana relazione in cui sudditanza e manipolazione psicologica si mescolano, e che lo condurrà, in un certo senso, a rubargli la scena.
Scritto e diretto con grande precisione, il film di Koszalka catapulta lo spettatore in un universo opprimente in cui è piuttosto immediato intuire i riflessi del regime politico che vessava la Polonia degli anni Sessanta; il riferimento viene però lasciato sempre nel fondo dei campi lunghi, nelle atmosfere, nell’immobilità generale in cui le uniche entità mobili sembrano essere i due protagonisti messi in movimento proprio dalla loro cosiddetta follia omicida. Sembra quasi che la città, in quel preciso momento storico, passi dall’essere luogo all’essere spazio (per riprendere l’arcinota distinzione di Michel de Certeau) proprio in quanto praticata dalla morte, non una morte casuale ma una morte agita, voluta, pensata. Qui sta forse il segreto della forza di questo film, nella determinazione con cui viene scostata ogni possibilità di giudizio ma anche di comprensione dei personaggi, empatica o dispatica che sia, in favore della pura narrazione. Una narrazione fortemente evocativa eppure molto precisa nel suo comporsi, lucidissima eppure misteriosa nella sua essenza come quella di Karol quando descrive alla polizia gli omicidi che non ha commesso. Quello che conta, nel film come nel racconto del giovane tuffatore, è la descrizione più che la spiegazione, il percorso che suggerisce lo spazio piuttosto che la mappa che consente di comprendere il luogo.
Cracovia, anni '60. Il giovane Karol è un tuffatore esperto e un vanto per la sua famiglia. Una sera, al luna park, scopre casualmente il corpo di un ragazzo, vittima del serial killer noto come “Il Ragno Rosso”. Karol nota un individuo misterioso vicino al cadavere, ma decide di non comunicarlo alle autorità. Rintraccia l'uomo, un inquietante quanto apparentemente innocuo veterinario. I due si incontrano, si studiano, la tensione cresce...