Fossero stati in Italia, li avrebbero definiti facilmente “bamboccioni”. In America, “slacker”. I protagonisti di Museo, Juan e Wilson, sono trentenni e sfaccendati, sempre a un passo dalla laurea ma mai davvero lì, ancora a casa con i genitori (William, almeno, ha la scusa del padre malato). In realtà sono qualcosa di un po’ più complesso, di non facile definizione, di sfumato e cangiante, e sempre inafferrabile. Soprattutto per quanto riguarda il primo, Juan, interpretato da un Gael Garcia Bernal in forma strepitosa.
Cos’è, infatti, a spingere davvero questo figlio della buona borghesia messicana a progettare ossessivamente, e portare a termine in maniera sorprendente, un colpo al Museo antropologico di Città del Messico(ispirato a un fatto accaduto nel 1985, anno in cui si ambienta il racconto) il cui bottino sono manufatti Maya dal valore inestimabile? La voglia di dimostrare alla sua famiglia di non essere un buono a nulla? Di non fare la fine dello zio Oscar, che pure è uno che si è caricato una colpa importante non sua? Il suo confuso patriottismo anti-colonialista? La sua ossessione per le radici storiche e culturali del suo paese? Forse, un insieme di tutte queste cose; o forse proprio nessuna di esse, e invece qualcosa di imperscrutabile, profondo, sfuggente a noi e allo stesso Juan.
Quella di Juan è un’urgenza forse irrazionale, e a Alonso Ruizpalacios va benissimo così. Anzi, alla fine del suo film lo ribadisce anche, attraverso la voce narrante di Wilson, che invece sta comodo nel suo ruolo di spalla: in fondo il mistero legato alle azioni e all’identità di Juan deve rimanere tale.
Chissà, magari Juan – tanto per rimanere coi piedi piantati dentro la cultura e le tradizioni del Messico – è un alebrije, uno di quegli animali surreali e coloratissimi visti di recente anche in Coco, una creatura magica. Uno spirito-guida, almeno per Wilson. Sicuramente è la guida dello spettatore nel mondo di Museo, che proprio come il suo protagonista non vuole farsi etichettare, ed è un film magnificamente liquido e multiforme, senza che questo ne infici la solidità e la sostanza, rappresentando al contrario uno dei suoi grandi punti di forza.
Ruizpalacios fa un salto in avanti notevole rispetto al precedente Güeros, e a quelle atmosfere intime e frastagliate, raccontate con la morbidezza ovattata del cinema indipendente americano degli anni Novanta e con l’energia romantica e nervosa della Nouvelle Vague francese, aggiunge toni e registri che riesce a tenere magicamente in equilibrio.
Museo parte come una commedia off-beat su due simpatici cialtroni, passa per un intervallo familiare raccontando un’esilarante e nervosa cena di Natale che dovrebbe servire da esempio e lezione per tutti i registi di casa nostra, gioca con cinema di rapina prima e col road movie poi, quando Juan e Wilson, effettuato il colpo, partono alla volta di Acapulco nel goffo tentativo di vendere il loro bottino. E c’è pure una parentesi quasi misticheggiantequando i due fanno tappa al sito archeologico di Palenque, e Juan vive dei momenti notturni di connessione spirituale con i maya lì seppelliti. A ogni suo passaggio, a ogni tentativo di comprenderlo e incasellarlo, Museo si trasforma, e sorprende con i suoi movimenti (anche di macchina) inaspettati, sempre capace di scartare nella direzione di quella “realtà non ordinaria” di cui parlava il Carlos Castaneda, non a caso citato di continuo da Juan.
Ecco, quello di Museo è sicuramente cinema non ordinario, capace di essere stratificato, complesso e leggero al tempo stesso, di dimostrare un gran senso dell’umorismo e, assieme, una profonda consapevolezza del linguaggio attraverso l’uso di piccole sperimentazioni, spesso presentate come giochi ma mai ostentate, mai semplici riempitivi per compensare i vuoti di contenuto.
La disinvoltura con la quale Ruizpalacios gestisce la complessità della storia va di pari passo con quella con cui riesce a portare avanti un discorso che passa per l’identità in maniera esplosa: l’identità di Juan e quella di un popolo, le maschere sociali (dai costumi di Babbo Natale ai ruoli nella famiglia passando per l’imprimatur della laurea e del lavoro: Juan e Wilson aggiungono a mano il nome della loro futura professione, quella di veterinari, a un insieme di cartelli di vie intitolate ai mestieri) e quelle funerarie dei Maya, nelle quali il personaggio di Bernal quasi si va a rispecchiare, la complessità di una nazione che assomma la megalopoli di Città del Messico, i siti archeologici e le località turistiche più da cartolina cui si possa pensare.
Alla fine di Museo l’impressione non è quella di sovrabbondanza, ma di grande levità. Di una levità che avvolge e non abbandona, e anzi lascia l’impressione che qualcosa, di quella storia e di quel racconto, stia ancora lì a lavorare dentro. Che si sia qualcosa, nella verità di quella storia, che non è del tutto chiaro, e rimane misterioso e subliminale. D’altronde, se c’è una lezione che Juan impara nel corso del film è che non si apprezza mai nulla di quello che si ha (o si è), fino a che non viene perduto. Che il vuoto a volte è più importante del pieno.
E, ancora una volta, è lo stesso Ruizpalacios a trarre d’impaccio, dicendo di non stare lì a pensare troppo, con un’ultima frase del suo film che è chiara abbastanza, e si riferisce tanto ai fatti realmente accaduti alla base del suo film, quando al nostro senso di sottile smarrimento: «perché rovinare una bella storia con la verità?».
Città del Messico, dicembre, 1985. Gli eterni studenti Juan e Benjamín hanno un’idea folle per risolvere la monotonia delle loro vite e la loro mancanza di prospettive: depredare il Museo Nazionale di Antropologia. Inaspettatamente, grazie anche al calo di sorveglianza del periodo natalizio, i due riescono nell’impresa e trafugano alcuni dei reperti precolombiani più preziosi del pianeta. Solo la mattina dopo, però, quando scoprono che i media stanno descrivendo il loro colpo come un vero e proprio attacco alla Nazione, comprendono la gravità e le implicazioni del loro operato. I passi successivi del piano li porteranno a girare per il Messico, dalle rovine di Palenque alle spiagge di Acapulco, nel futile tentativo di piazzare dei tesori così riconoscibili che nessuno osa acquistarli.