Puoi realizzare un film di guerra senza ricorrere all'azione, fregandotene della Storia e spostando gli equilibri esclusivamente con il linguaggio utilizzato? Potresti, certo. Tutto si può, in linea di principio. Ma il film così concepito diventa un capolavoro se lo realizza Tarantino. Che scava dentro di sé e inanella sequenze come se fossero un unico, immenso e sfavillante puzzle di suggestioni personali, stratificatesi in decenni di visioni ossessive. Una questione privata. Per Shosanna, certo, ma anche per Tarantino, che la trasforma in un Risiko di tensioni mai viste prima, giocate sul logocentrismo come arma di distruzione di massa, grazie al quale assumere il controllo, rovesciare le certezze altrimenti assodate, sbaragliare i nemici. È una faccenda di cultura, non di forza belluina. Il tre non è tre a tutte le latitudini e può fare la differenza tra la vita e la sua messa in discussione. E sulla messa in discussione, spiegandone minuziosamente le motivazioni per cui uno sta per morire, Tarantino non ha rivali. La guerra la vince lui.