Siamo in Cina nel 2013, ma quello che vediamo di fronte a noi è a tutti gli effetti il mondo intero di oggi, quello del capitalismo globale e della crisi economica. Dalla privatizzazione delle miniere dello Shanxi e l’ingente appropriazione di risorse collettive da parte della nascente borghesia locale, alla zona di libero scambio di Guandong, vicino a Hong Kong e Macau; da una storia di migrazione a Chongqing fino alla Cina centrale dell’Hubei, Il tocco del peccato si muove dalle zone più arretrate, agricole e decentrate, a quelle più sviluppate e legate ai servizi; dalle miniere ai treni ad altissima velocità; dai giovani cosmopoliti agli anziani legati ai luoghi più rurali e tradizionali. Perché con questo film Jia Zhang-ke riesce là dove persino Ėjzenštejn aveva fallito: nella rappresentazione della totalità del capitalismo. E lo fa mostrandoci una serie di storie che sono legate tra loro nonostante l’apparente diversità, come se dietro al caso ci fosse una logica di fondo che intreccia questi uomini e queste donne gli uni alle altre. Perché il capitalismo non è nient’altro che questo: un legame invisibile che si tesse tramite l’astrattezza dei rapporti sociali; un luogo dove ci si sfiora, ci si passa le merci di mano in mano, si parlano lingue diverse (nel film si parlano un’infinità di dialetti), ci si tratta indifferentemente con amore o con violenza e che nonostante tutto continuiamo ancora ad abitare come se fossimo degli estranei.